PRC, DOMANI PRESIDIO A MONTECITORIO CONTRO IL DDL VERGOGNA SU SICUREZZA

Iprovvedimenti contenuti nel Ddl sulla “sicurezza” che arriverà alla Camera ilprossimo giovedì, blindato dal voto di fiducia voluto dalla Lega,determineranno un deciso arretramento del nostro paese sul versante delrispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dalla dichiarazioneuniversale dei diritti dell’uomo.

 

Reatodi clandestinità, ronde, trattenimento per 6 mesi nei Cie, aumento del costodel permesso di soggiorno, porteranno infatti alla istituzionalizzazione delrazzismo e della discriminazione nei confronti dei più deboli.

 

Berlusconie la Lega dimostrano nuovamente di voler affrontare la crisi e importantiemergenze sociali, attraverso la criminalizzazione dei migranti e l’incitamentoalla guerra tra poveri, per nascondere le proprie inadempienze e le vere responsabilità.Ciò è del tutto evidente anche nelle recenti sparate elettoralistiche diSalvini, con la proposta di istituire vagoni della metropolitana riservati agliimmigrati.

 

Siamodi fronte ad una vera e propria legge della vergogna che produrrà nuovainvisibilità, invivibilità e precarietà, ma soprattutto una riduzione deidiritti di tutte e tutti. Per questo Rifondazione Comunista dà appuntamento achi ha a cuore la democrazia, a chi si oppone contro ogni forma di razzismo ediscriminazione, al presidio contro il Disegno di Legge sulla “sicurezza” mercoledì13 maggio, dalle ore 13 in poi a piazza Montecitorio”.

Pubblicato in Politica | Commenti disabilitati su PRC, DOMANI PRESIDIO A MONTECITORIO CONTRO IL DDL VERGOGNA SU SICUREZZA

Malato di montagna, HANS KAMMERLANDER

       «Scalai la mia prima montagna all’età di otto anni… nel mio giovane spirito, e soprattutto nel mio corpo, dominava una tendenza al movimento così intensa da rendermi irrequieto. Non riuscivo a trovare una spiegazione; sentivo soltanto qualcosa che si agitava dentro di me…»
Considerato uno dei più forti alpinisti mondiali d’alta quota, Hans Kammerlander ripercorre in questo libro le tappe della sua vita: dai banchi di scuola, dove già inseguiva orizzonti più vasti, al giorno in cui, proprio saltando la scuola, raggiunse la sua prima cima, salendo sul Moosstock a quota 3059; dalle prime esperienze sulle Dolomiti, all’importantissimo incontro con Reinhold Messner, alla «conquista» di 13 dei 14 Ottomila. Unico uomo al mondo a essere sceso dall’Everest con gli sci, dopo aver raggiunto la vetta in solitaria a un tempo record di 17 ore, Kammerlander ci racconta in modo coinvolgente le sue spettacolari imprese, le sue avventure tra roccia e ghiaccio, il suo rapporto con il rischio, la paura e la morte e soprattutto la sua passione per la montagna, svelandoci le ragioni profonde di quel bisogno incontrollabile di superare continuamente i propri limiti per cercare di rendere possibile l’impossibile.

            
    
            
                
LA STAMPA
        «Uno splendido viaggio sulle montagne più alte della terra guidati da una passione che, per l’autore, ha addirittura un che di patologico, tanto da definirsi un malato di montagna.»
Gazzetta dello Sport

«Malato di montagna è un libro di 262 pagine: si legge in un sol fiato e, di certo, ammalerà molti appassionati.»
No Limits

            
    
            
    
        
Hans Kammerlander è nato nel 1956 ad Acereto (Ahornach), in provincia di Bolzano. Alpinista estremo, guida alpina e maestro di sci, è uno dei più famosi scalatori d’alta quota del mondo. Giovanissimo ha raggiunto le vette dell’Ortles, del Monte Bianco e del Matterhorn. È salito su 13 dei 14 Ottomila, 7 dei quali con Reinhold Messner, e l’ultimo dei quali, il K2, conquistato nel luglio 2001 dopo aver scritto questo libro.

Hans Kammerlander su Internet
www.kammerlander.com 

HANS KAMMERLANDER

Malato di montagna

Trad. di A. Di Bello

Avventure  22;
pp. 262;

Quarta edizione   Euro 9,60

ISBN 978-88-502-0441-0     

Prima edizione 2003

 

 

Pubblicato in Parole | Commenti disabilitati su Malato di montagna, HANS KAMMERLANDER

LO MEJOR QUE LE PUEDE PASAR A UN CRUASAN

E’ bello conoscere persone nuove, fare amicizia e stare bene con loro. ANcora meglio è incontrare una persona con cui si hanno avuto rapporti solo a distanza, telefonici e di posta elettronica o tuttalpiù incroci nella rete e scoprire che è una bella persona e, si, l’impressione positiva che avevi di lei è confermata. Se poi questa persona ti fa comprare un libro che ti divori in un giorno e mezzo, se non meno, beh, allora è quasi come fare bingo.

Il meglio che possa capitare a una brioche, di Pablo Tusset è un libro molto divertente. SOno riuscito a ridere da solo leggendolo in più punti, e questo è uno degli indicatori che mi fanno pensare che un libro è ben scritto.

Procuratevelo e leggetelo, perché ne vale proprio la pena.

 Il meglio che possa capitare a una brioche
Pablo  Tusset


Traduzione: Tiziana  Gibilisco
Collana: Universale Economica
Pagine: 312
Prezzo: Euro 8
 
In breve
"Il romanzo più interessante e divertente che abbia letto negli ultimi tempi: un occhio capace di calamitare tutte le informazioni, tutta la cultura, tutta la nostalgia per modi di stare al mondo irrimediabilmente perduti." Manuel Vázquez Montalbán
 
Il libro
Cosa succede quando Pablo Baloo Miralles, trentenne disadattato e arrogante, fannullone, misogino, puttaniere, oltre che pecora nera e noto filosofo della Rete, si trova coinvolto in un mistero nel quartiere più "figo" di Barcellona? A bordo di un coupé con aria da pantera Bagheera e con un senso dell’umorismo brillante, originale e pungente, Pablo ci guida nei meandri di una storia ricca di allegri sprazzi alcolici, divagazioni veneree e pagine web dal dubbio contenuto, sulle tracce di suo fratello Sebastián, detto The First, presidente della Miralles & Miralles, la prospera azienda di famiglia. Una fuga con l’amante? La vendetta di qualche impostore della concorrenza? Un rapimento? L’agitazione dei familiari costringe Pablo a improvvisarsi detective. Proiettato in un’esilarante avventura al fianco dell’amica Fina, eroina naïf, si ritroverà prigioniero nei labirinti di un’inquietante Fortezza, cittadella invisibile, celata nelle viscere di un’inedita Barcellona dalle mille meraviglie.
 
 
Approfondimento
"Il meglio che possa capitare a una brioche è essere spalmata col burro," pensa Pablo Miralles mentre, tristemente, stende invece un velo di margarina per mettere insieme la sua grama colazione… D’altro canto, se si ha una strana somiglianza con l’orso Baloo di disneyana memoria e, al pari del simpatico plantigrado, si è convinti che nella vita "ti bastan poche briciole / lo stretto indispensabile", non stupisce che l’uomo, pur essendo figlio di un magnate della finanza barcellonese, non possa neppure permettersi una degna confezione di burro. È anche per questo che Pablo, scioperato marcantonio quarantenne, accetta l’incarico del fratello maggiore Ignacio, detto "The First", per l’anzianità e per il suo smodato istinto competitivo. In cambio di cinquecentomila pesetas, Pablo deve badare alla discreta vigilanza di una diroccata villetta nel centro di Barcellona. Ma Ignacio scompare dalla faccia della terra senza lasciare traccia di sé e dell’amante che, ovviamente, è la sua segretaria personale.
La famiglia si agita, grida allo scandalo e al buon Pablo tocca improvvisarsi detective. Da qui si dipana un’intricata, stralunata e divertente ricerca che porterà Pablo nel cuore di una misteriosa setta esoterica.
Guappo e un po’ cialtrone, Pablo Miralles è un personaggio finto-burbero che si sforza di apparire cinico e baro senza mai riuscirci del tutto. Sembra un degno rivale di Carvalho e riesce a muoversi con grande leggerezza nel ritmo di una frenetica Barcellona che, pur mantenendo la sua irripetibile identità, diventa nel racconto un eccentrico paradigma della metropoli occidentale.

 

Pubblicato in Parole | Commenti disabilitati su LO MEJOR QUE LE PUEDE PASAR A UN CRUASAN

L’Italia è un paese di merda…

Il razzismo del senso comune e la cultura di destra


Un paese normale
Che fa schifo

Guido Caldiron

Alle nove di domenica sera la stazione di Nettuno è deserta. Del punto in cui solo poche ore prima, alle quattro della notte precedente, un indiano di 35 anni, Navtej Singh Sidhu, era stato aggredito, picchiato e "bruciato" da alcuni giovani italiani non c’è apparentemente alcuna traccia. Arrivati al binario, si scorge sulla porta dell’ufficio del Capostazione un ferroviere che però si ritrae subito. «Abbiamo disposizioni di non rilasciare alcuna dichiarazione», è la sua replica alla domanda: «Dove è successo?». Per capire dove è accaduta la tragedia – l’uomo si è salvato malgrado le molte e terribili ustioni anche se è ancora molto grave, ma alle nove di domenica sera tutti a Nettuno lo danno ancora per morto – si deve fare ricorso a uno dei giovani che, al mattino, erano entrati alla stazione. E’ lui che, al telefono, ci guida: il punto è solo a pochi metri dall’ufficio dei ferrovieri. Una macchia scura per terra segnala la traccia lasciata da quel corpo che bruciava. Non c’è niente, né i segni dei rilevamenti fatti dalle forze dell’ordine, né un segno di omaggio o saluto, un fiore o altro. Fuori dalla stazione c’è un signore che porta a spazzo un cane: «Sì, abito qui vicino. Sì, lo so, è successa una cosa grave. Ma che vuole ormai ne succedono tante… anche questi immigrati».
Nettuno, Italia. Una domenica come tante di un piovoso gennaio. Un quasi morto ammazzato mentre dormiva. Lui era un immigrato, un barbone, pare dormisse lì da giorni. Loro, gli aggressori, tre giovani del luogo, i due più grandi hanno 29 e 19 anni e risiedono nella cittadina, il più piccolo ne ha 16 e vive ad Ardea, un grosso centro agricolo dell’entroterra. Siamo a una quarantina di chilometri a sud di Roma.
A metà pomeriggio di domenica le news della Tim segnalavano che gli inquirenti avevano già le idee chiare sull’accaduto: l’sms parlava di «aggressione mirata» e di «matrice razzista». Poi, con il passare delle ore è emersa una lettura diversa, quella raccontata dai giornali di ieri. Ragazzi annoiati, in cerca di emozioni forti, "storditi" dall’alcool e dalle canne. La xenofobia non c’entra, al massimo si tratta dei «razzisti del sabato sera» come titolava il quotidiano Il Tempo . Dei tre giovani si sa ancora poco, si dice "figli di lavoratori", cresciuti nelle case dello Iacp. Non sarebbero in ogni caso militanti dei gruppi neofascisti che comunque a Nettuno non mancano.
Intanto politici e opinionisti fanno la loro parte nella ri-costruzione dell’evento. Il Sindaco di Roma Alemanno lancia il suo mantra: «Se qualcuno pensa che i recenti fatti di violenza, che hanno visto come presunti colpevoli delle persone immigrate, possano essere un alibi per ritorsioni xenofobe, si sbaglia di grosso. A nessuno è consentito farsi giustizia con le proprie mani e tanto meno strumentalizzare politicamente il dolore delle donne che sono state violentate nei giorni scorsi». Già, ma chi, prima di Alemanno aveva letto i fatti di Nettuno come "una vendetta" contro gli immigrati? Nessuno, ma evidentemente l’esponente di An ci tiene a parlare a quella parte di italiani che così possono vedere le cose. «La vicenda di Nettuno è legata più al disagio sociale e ambientale che ad una questione razzista», taglia corto il ministro dell’Interno Roberto Maroni che solo poche ore dopo annuncerà: «Basta bontà saremo cattivi contro i clandestini».
Anche la questione "droghe" fa la sua comparsa: i tre giovani responsabili dell’aggressione erano fatti, fuori controllo, privi di lucidità, si dice. Per un mix di alcool e canne? Talmente fuori di sé da dar fuoco a un uomo inerme? Come per lo stupro di Capodanno alla Fiera di Roma – responsabile un italiano di "buona famiglia" – "lo sballo" è considerato alla base di una trasformazione antropologica: rende dei bravi ragazzi dei mostri violenti e sanguinari. La narrazione proibizionista trova la sua conferma: la droga è il male che inquina o avvelena un corpo sociale altrimenti sano.
Resta la fotografia sfuocata di una realtà così simile a tante altre, alla "scena" di tanti altri reati, violenze, aggressioni, omicidi compiuti ai danni di chi in quel momento si considera, con un arco di sentimenti che va dal fastidio all’odio, intollerabilmente diverso da sé. No, alla base di un tale atteggiamento non c’è necessariamente una cultura neofascista, la tessera in tasca di un gruppo para-nazi. Per chi non se fosse accorto questo è il rumore di fondo che copre nel nostro paese ogni riflessione complessa, ogni tentativo di capire, analizzare, cercare soluzioni da non far pagare a nessuno, magari al proprio vicino di casa. Chi si ricorda della morte di Abba, ammazzato per un biscotto a Milano? E di Tommaso, ucciso per una sigaretta a Verona? O di Renato, accoltellato sul litorale romano. E dei tanti a cui non sappiamo neppure dare un nome, che neppure la morte ha strappato alla "clandestinità"? Certo, i fascisti ci sono, nelle istituzioni come nelle strade, ma sarebbe assurdo pensare che questa onda di odio parta solo da lì. Nelle ultime settimane è capitato perfino che un sindacato "di estrema sinistra" chiedesse il boicottaggio dei negozi "degli israeliti". Tanto per dire che contro il razzismo non si è solo "abbassato la guardia": il problema è molto, ma molto più radicato.
Sulla violenza di Nettuno pesa perciò un clima – che la destra di governo usa fino in fondo per chiudere il cerchio della xenofobia di Stato con l’appello alla repressione a alla militarizzazione della "sicurezza" – che nasce nelle strade di questo paese. Un barbaro senso comune che è pronto ad armare in ogni momento una nuova mano, che costruisce una cultura di morte e sopraffazione che rende poi possibile la violenza e spesso perfino l’omicidio. Non basta indicare nella destra la parte politica che su questo clima specula – specie in tempo di crisi – dopo averlo alimentato, si deve guardare in faccia il mostro anche quando ha un volto accettabile, se non gradevole. Capire che dietro ogni esplosione di violenza razzista c’è un’intera comunità pronta a minimizzare o a giustificare: è questa la sfida con cui oggi ci si deve misurare.
03/02/2009

Pubblicato in Politica | Commenti disabilitati su L’Italia è un paese di merda…

Anche se vi credete assolti…..

 

Dopo che la politica ha
legittimato i vertici della polizia, responsabili delle mattanze a
Genova nel luglio 2001, con le promozioni degli imputati e il rifiuto
della commissione d’inchiesta, il tribunale di Genova, con la sentenza
emessa nella tarda serata di giovedì 13 novembre, li ha assolti anche
dalle responsabilità penali ed ha legittimato l’immunità delle forze
dell’ordine da qualsiasi reato. Il tribunale di Genova ha sentenziato
che chi spacca una vetrina è stato punito con dieci anni di carcere
(nel processo a 25 manifestanti, concluso in primo grado nel dicembre scorso), mentre i maltrattamenti e le torture sui detenuti a Balzaneto, la mattanza alla Diaz non hanno responsabili e mandanti .

Se la sentenza di luglio,
relativa alle violenze e torture compiute dalle forze dell’ordine nei
confronti di centinaia di giovani inermi all’interno della caserma di
Bolzaneto, era sembrata un vero e proprio colpo di spugna, la sentenza
riguardante la sanguinosa irruzione delle forze dell’ordine all’interno
della scuola Diaz riesce a fare perfino di peggio assumendo il
carattere di una vera e propria amnistia.

Nonostante nel corso del
processo siano state dimostrate in maniera incontrovertibile le
responsabilità degli agenti, sia per quanto riguarda le violenze
gratuite nei confronti dei giovani che dormivano all’interno della
scuola Diaz, sia in merito alla falsificazione delle prove consistenti
in bombe molotov, picconi e spranghe portati sul posto dagli stessi
poliziotti al fine di giustificare con l’inganno il proprio operato, la
sentenza emessa dal Tribunale di Genova è di quelle da lasciare basito
chiunque sia stato in grado di percepire la gravità degli accadimenti.

Mi piacerebbe
sentir dire, da quei politici che un giorno sì e l’altro pure,
disquisiscono di giustizia avendo in testa soltanto le immunità castali
da una parte e la lotta alla microdelinquenza dall’altra, cosa pensano
di questa vergognosa sentenza. Ma la politica, non da oggi, su Genova
tace, e anche quando ha parlato non ha mai capito, e quando ha capito
ha voluto archiviare, il valore paradigmatico che quei due scempi della
Diaz e di Bolzaneto avevano e hanno per le sorti del nostro stato di
diritto. Forza bruta contro legalità. Eccezione contro regola.
Sospensione dei diritti fondamentali in uno spazio affrancato da ogni
garanzia e ogni convenzione.

A Genova non fu questione
di un po’ d’eccesso nella repressione di un movimento. A Genova fu
sospeso lo stato di diritto, anzi, fu sperimentato che sospendere lo
stato di diritto è possibile, senza che il potere politico sia chiamato
a risponderne e senza che ne paghi alcuna conseguenza. Immunità per
tutte le alte cariche dello Stato, conquistata sul campo molto prima
che in parlamento.

Alla luce di questa sentenza  che
ha “graziato” i responsabili dei gravissimi fatti di sangue (ancora più
gravi in quanto compiuti da coloro che dovrebbero far rispettare la
legge) accaduti durante il G8 di Genova del 2001, non mi stupisce più
di tanto constatare come il poliziotto Spaccarotella, responsabile
dell’assassinio di Gabriele Sandri, avvenuto un anno fa all’interno del
parcheggio di un autogrill, nonostante l’imputazione di omicidio non
sia stato sospeso dal servizio e neppure abbia subito alcun
procedimento disciplinare. Non resta che prendere coscienza del fatto
che le forze dell’ordine, anche quando sbagliano, rispetto alla legge
continuano a rimanere “più uguali” rispetti a tutti gli altri.

“Disoccupate le strade dai
sogni ed arruolatevi nella polizia” cosi cantava Claudio Lolli dopo le
giornate del marzo bolognese del 1977. E’ questo quello che ci vuole
dire la sentenza di Genova. Ma si sbagliano se pensano di aver
calpestato la nostra testardaggine per la verità e la giustizia. Le
tragiche giornate del luglio 2001 rimarranno impresse dentro di noi. Lo
schifo per questo potere ancora di più.

 

Italo Di Sabato

Pubblicato in Politica | Commenti disabilitati su Anche se vi credete assolti…..

SENTENZA DIAZ-G8, PAGINA CUPA E VERGOGNOSA STORIA ITALIA

Dichiarazione di Italo Di Sabato – resp. naz.le Osservatorio Repressione Prc/Se.

DI SABATO, PRC: SENTENZA DIAZ-G8, PAGINA CUPA E VERGOGNOSA STORIA ITALIA.

La sentenza emessa dal Tribunale di Genova di assoluzione per i vertici della polizia responsabili del massacro nella "macelleria messicana" alla scuola Diaz è una delle pagine più cupe e vergognose della storia repubblicana. Una pietra tombale alla verità e alla giustizia che chiediamo da 7 anni e mezzo. Questa sentenza vuol dire che nel nostro paese la polizia non può essere processata neppure quando sono responsabili di provocazioni e depistagi conclamati.
Ancora una volta ci troviamo difronte ad una giustizia forte con i deboli e debole con i forti. La storia, per fortuna, non la scrivono i tribunali è quello che è accaduto a Genova nelle tragiche giornate del luglio 2001 è la storia di migliaia di manifestanti picchiati, umiliati e violentati dalla feroce repressione. E’ la storia di Carlo Giuliani. E’ la storia di tutti noi che a Genova c’eravamo e la storia di tutti quelli che dopo questa sentenza gridano Vergogna.

Pubblicato in Politica | Commenti disabilitati su SENTENZA DIAZ-G8, PAGINA CUPA E VERGOGNOSA STORIA ITALIA

ASSOLUZIONE VERTICI POLIZIA NON DEGNA DI UNO STATO DEMOCRATICO.

DIAZ- NICOTRA (PRC) : "ASSOLUZIONE VERTICI POLIZIA NON DEGNA DI UNO STATO DEMOCRATICO.FERITA PROFONDA ALLA CREDIBILITA’ DELLA REPUBBLICA"

Alfio Nicotra, uno dei portavoci del Genoa Social Forum durante i giorni del
G8 del Luglio 2001 e responsabile nazionale Movimenti del Prc esprime in una nota "vergogna per una sentenza non degna di uno Stato democratico."

"Che questi teppisti in divisa che tutto il mondo ha visto  entrare in forze alla scuola Diaz , pestare a sangue persone inermi, fabbricare prove e raccontare palesi menzogne sbugiardate ampiamente nel corso del dibattimento, agissero di propria testa non sta nè in cielo nè in terra".

Per Nicotra "questa sentenza è un colpo mortale, una ferita profonda alla credibilità della Repubblica italiana. I giudici hanno legittimato uno scempio che ora potrà ripetersi di nuovo, garantendo ai responsabili impunità per nuove macellerie messicane contro i movimenti."

"E’ una sentenza politica – conclude Nicotra – una sentenza di regime che ci farà vergognare nel mondo."

Pubblicato in Politica | Commenti disabilitati su ASSOLUZIONE VERTICI POLIZIA NON DEGNA DI UNO STATO DEMOCRATICO.

Un cristiano americano di Raniero La Valle

Articolo della rubrica "Resistenza e pace" in uscita sul
prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca (rocca@cittadella.org )

 

 

Sì, è vero, in America tutto può accadere, compreso il
fatto che un nero divenga presidente degli Stati Uniti. Però ci sono voluti 220
anni; all’inizio i neri erano incatenati come schiavi, e i padroni li tenevano
in vincoli invocando gli stessi principi per i quali oggi possono diventare
presidenti degli Stati Uniti. In quel bellissimo romanzo che è "La capanna dello
zio Tom", a chi contestava il modo in cui un padrone del Sud trascinava in
catene i suoi schiavi, quello rispondeva: "Questo è un Paese libero; quest’uomo
è mio ed io ci posso fare quello che mi pare". Commentava Alessandro Portelli,
in un recente seminario, che ciò voleva dire intendere la libertà come
proprietà. E mentre la Dichiarazione di indipendenza americana proclamava che
con tutta evidenza "gli uomini sono creati uguali, e che essi sono dotati dal
loro creatore di certi diritti inalienabili, e tra questi sono la vita, la
libertà e la ricerca della felicità", i due Padri fondatori Washington e
Jefferson erano i più grandi proprietari di schiavi d’America. E ancora pochi
decenni fa, quando Martin Luther King alla marcia per i diritti civili gridava
"I have a dream" (io ho un sogno), come oggi Obama dice "change I
need
" (abbiamo bisogno  di cambiare), il sogno non poteva
essere più umile, era semplicemente che i neri potessero salire sugli stessi
autobus dei bianchi e che i bambini neri potessero andare a scuola con i bambini
bianchi, senza essere né segregati né "spalmati", come ora si vorrebbe fare con
i bambini stranieri in Italia.

Che cosa c’è di mezzo tra quella condizione di
schiavitù, di discriminazione, e la condizione di oggi? Non possiamo dire che
c’è la Costituzione, perché la Costituzione c’era ieri come c’è oggi. Ma il
fatto è che quando la Dichiarazione di indipendenza diceva che "tutti gli uomini
sono creati uguali", ciò veniva interpretato nel senso che non tutti sono creati
uomini, ma solo i liberi ed eguali lo erano, restandone esclusi i neri, gli
indigeni, gli schiavi; ed è su questa linea che ancora oggi per
l’amministrazione Bush esistono due categorie di uomini, gli americani e
i non-americani, a cui si applicano due pesi e due misure ed anche due
diritti penali diversi, senza di che lo scandalo di Guantanamo e il rifiuto di
applicare le convenzioni di Ginevra ai nemici in quanto "combattenti
illegittimi", non sarebbero possibili.

Perciò non bastano le Costituzioni, ma tra le
Costituzioni che proclamano i diritti e il momento in cui essi diventano
effettivi, c’è di mezzo la lotta per l’attuazione della Costituzione; c’è di
mezzo la politica.

Ma la elezione di Obama non è solo un momento
dell’attuazione in America di una democrazia costituzionale per tanti aspetti
non ancora compiuta; è anche una grande sfida e una grande opportunità per la
ripresa di una prospettiva di democrazia costituzionale sul piano mondiale.
Questa prospettiva, che era stata aperta dall’istituzione dell’ONU nel 1945, era
stata congelata dalla guerra fredda, era sembrata riaprirsi con la rimozione del
Muro e la fine del conflitto tra i blocchi nell’89, è stata chiusa dalla Nuova
destra religiosa e militarista americana che ha concepito, sul finire del
Novecento, il progetto del "nuovo secolo americano", ha cavalcato la tragedia
dell’11 settembre, si è servita come braccio secolare del povero Bush e ha
enunciato, con l’editto della "Strategia della sicurezza nazionale degli Stati
Uniti" del 2002, il principio che l’unica sicurezza per l’America era il dominio
del mondo, ridotto a un’unica disciplina, a un’unica economia, a un’unica
ideologia e a un unico Impero.

Questo disegno è fallito, nella catastrofe dell’Iraq e
dell’Afghanistan, nel velleitarismo dello scontro di civiltà e nella crisi
economica e finanziaria globale. Le file di votanti mai viste prima in America
hanno detto al mondo che questa fase si è chiusa e che ora che l’edificio è
crollato, nulla davvero potrà essere più come prima.

Ma la stessa entità del disastro dice qual è l’entità
del cambiamento necessario. Non c’è alcuna certezza che Obama ce la farà, anche
se ha cominciato bene annunciando la cancellazione di molti "ordini esecutivi"
di Bush, a cominciare da Guantanamo; ma certo egli porta al vertice della
politica americana una qualità nuova, che è quella di essere un cristiano che
non sta dalla parte dei ricchi ma dalla parte dei poveri e della "classe media"
impoverita; un cristiano che nel linguaggio europeo si direbbe "un cristiano di
sinistra"; un cristiano che non sta con l’arroganza della fede e con le truppe
crociate, ma rivendica a sé una "vittoria umile", e che in questa umiltà
potrebbe ritessere equi rapporti con il resto del mondo.

 

                                                             
Raniero La Valle

 

Pubblicato in Laicità | Commenti disabilitati su Un cristiano americano di Raniero La Valle

FIRENZE, ROM BRUTALMENTE PICCHIATA

FIRENZE, ROM BRUTALMENTE PICCHIATA AL MERCATO DI SANT’AMBROGIO DA UNA
COMMERCIANTE

GRUPPO EVERYONE E L’AURORA ONLUS:  “E’ CLIMA DI ODIO
RAZZIALE E IMPUNITA VIOLENZA CONTRO ROM, MIGRANTI E SENZATETTO”

E’
accaduto lunedì 10 novembre 2008 al mercato di Sant’Ambrogio a Firenze: Aurica
C., rom romena di 34 anni, è stata brutalmente picchiata intorno alle 9 del
mattino da una commerciante del mercato, fiorentina, che vende abiti usati. La
donna rom, in compagnia di un’altra ragazza, chiedeva come tutte le mattine da
oltre nove anni l’elemosina ai passanti e agli avventori del mercato quando è
stata invitata ad avvicinarsi dalla donna. "Pensavo volesse darmi dei vestiti, o
qualche spicciolo" ha raccontato all’associazione L’Aurora onlus e al Gruppo
EveryOne la donna aggredita, che ha costante necessità di accompagnamento per
una grave forma di depressione e continui disturbi da attacchi di panico.
"Invece ha iniziato a urlare che sabato scorso, sempre al mercato, avevo rubato
un braccialetto da un banco con la mia accompagnatrice. Io ho spiegato che un
commerciante, che mi conosce da anni, mi aveva regalato della bigiotteria, ma
che mai e poi mai ho rubato qualcosa. Al mercato ci passo tutti i giorni, mi
conoscono tutti e una volta ho anche riportato un portafoglio trovato per terra
al forno del mercato, affinché
i legittimi proprietari lo
riprendessero". Versione, questa, che è stata confermata ai rappresentanti
delle due associazioni da molti commercianti del mercato. “Uno di loro"
dichiarano Stefania Micol, presidente dell’associazione L’Aurora, e Matteo
Pegoraro, co-presidente del Gruppo EveryOne, "ci ha anche rilasciato una
testimonianza scritta, dove conferma di aver regalato della bigiotteria alle due
donne rom". Dalle accuse, la commerciante sarebbe passata alle offese verbali, e
subito dopo avrebbe iniziato a strattonare Aurica e l’accompagnatrice, colpita
allo zigomo con un pugno. Dopo di che, come riferisce il referto medico
rilasciato dal Pronto Soccorso dell’ospedale di Santa Maria Nuova, Aurica è
stata presa a calci e gomitate e, spintonata, è caduta e ha continuato a
ricevere calci alla gamba sinistra. A quel punto, è stata colta da un attacco di
panico. "Ho preso una pasticca di Xanax per calmarmi, come mi hanno prescritto i
medici, non riuscivo a respirare ma la commerciante continuava a calciare e a
insultarmi" ha proseguito la rom. La prognosi dell’ospedale è di 5 giorni, per
“addome dolorabile diffusamente alla palpazione e lieve trauma contusivo
dell’addome da aggressione a mani nude”. La ragazza, affiancata dall’assistenza
delle due associazioni, proseguirà con una denuncia.


"Ciò che è accaduto" commentano i leader del Gruppo EveryOne e
dell’associazione L’Aurora "è sintomo del clima di odio razziale e di impunita
violenza contro rom, migranti e senzatetto che è sempre più grave in Italia. Le
segnalazioni di abusi si susseguono ormai quasi quotidianamente.

Qualche giorno fa abbiamo condotto in ospedale un giovane Rom romeno,
pieno di contusioni. Ha dichiarato di aver subito un pestaggio a Cesena, da
parte di
uomini in divisa. Abbiamo trasmesso referti medici e una
sconvolgente videotestimonianza alla Commissione europea". "Rimini un senzatetto
italiano è stato cosparso di benzina e dato alle fiamme da ignoti" proseguono
gli attivisti. "E’ in gravissime condizioni. Abbiamo segnalato più volte il
clima di intolleranza che esiste proprio a Rimini e che ha già scatenato episodi
di violenza e di ingiustizia sociale, ma il nostro allarme è stato sottovalutato
dalle Istituzioni. Il fenomeno della
discriminazione e della violenza contro
le minoranze è fuori controllo e il Governo non dimostra certo una volontà di
attuare piani di inclusione sociale. Forse il buon esempio dovrebbe arrivare
dalle amministrazioni di sinistra, che invece gareggiano con la controparte
politica nell’inventare forme di persecuzione sempre più crudeli. "Ci auguriamo"
concludono EveryOne e L’Aurora “di notare, in seguito a quest’ennesima,
sconcertante denuncia, un ‘sussulto’ antirazzista, seguito da un concreto
impegno per arginare la discriminazione e la violenza contro le
minoranze”".

Per ulteriori informazioni:
Gruppo EveryOne
Tel: (+
39) 334 8429527 – (39) 331 3585406
www.everyonegroup.com

info@everyonegroup.com
L’Aurora onlus
Tel: (+ 39) 055
2347593 – (+ 39) 339 8210866
Pubblicato in Politica | Commenti disabilitati su FIRENZE, ROM BRUTALMENTE PICCHIATA

Adozioni di minori rom/sinti e sottrazione di minori gagé

L’ampia ricerca “Adozione di minori rom/sinti e sottrazione di
minori gagé” commissionata dalla Fondazione Migrantes al Dipartimento di
Psicologia e Antropologia culturale dell’Università di Verona e alla direzione
del Prof. Leonardo Piasere, si articola in due studi volti a rispondere a
differenti ma complementari interrogativi.
L’uno –– in corso di pubblicazione
presso CISU – volto a verificare quanti bambini figli di rom o sinti siano stati
dati in affidamento e/o adozione dai Tribunali per i Minori italiani a famiglie
gagé, condotto da Carlotta Saletti Salza. L’altro – già edito dallo stesso
editore col titolo “La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze
(1986-2007) – sui presunti tentati rapimenti di infanti non-rom da parte di rom,
condotto da Sabrina Tosi Cambini.
Il progetto di ricerca “Adozione dei minori
rom e sinti” prevedeva la raccolta il più esaustiva possibile di dati
documentati relativi all’affidamento e all’adozione di minori rom e sinti a
famiglie non rom da parte dei tribunali dei minori italiani, nel periodo
compreso tra il 1985 e il 2005, nonché un’analisi dei dati raccolti.
La
scelta è stata quella di condurre una ricerca sull’affidamento e sull’adozione
dei minori rom e sinti a partire dai dati relativi alle dichiarazioni di
adottabilità che sono registrati presso le sedi dei tribunali minorili e dalle
informazioni raccolte nei servizi sociali di territorio, comunali e ospedalieri,
in materia di allontanamento dei minori dal nucleo famigliare.
Quindi, sono
stati raccolti i dati relativi alle dichiarazioni di adottabilità presso otto
(Torino, Bologna, Bari, Lecce, Trento, Firenze, Venezia e Napoli) delle
ventinove sedi dei tribunali minorili e sono stati svolti colloqui con i servizi
sociali di riferimento. Complessivamente, i casi di minori rom e sinti
dichiarati adottabili sono oltre duecento.
I dati raccolti in ciascuna delle
sedi dove si è svolto il lavoro di ricerca mostrano differenze rilevanti legate
al contesto storico e sociale all’interno del quale, nel corso degli anni, si
sono inserite le differenti comunità rom e sinte. Per fare un esempio, vi sono
situazioni nelle quali troviamo una mancanza di tradizione del lavoro dei
servizi sociali (come a Lecce, dove assistiamo a una pericolosa inversione di
ruoli dal momento che l’Autorità Giudiziaria minorile si sostituisce alla tutela
sociale che dovrebbero invece esercitare i servizi di territorio) e contesti nei
quali invece i servizi sociali vantano una sorta di specializzazione nel lavoro
con le comunità rom (vedi il caso di Firenze, Torino, Venezia), con una
pericolosa stigmatizzazione della cultura da parte dei differenti operatori
coinvolti.

Nel complesso, l’analisi dei dati mostra la
facilità con la quale, nelle diverse realtà analizzate, la tutela sociale (dei
servizi di territorio) e civile (dell’Autorità Giudiziaria) scivolano
nell’indifferenziare l’identità di un minore rom con quella di un minore
maltrattato. Come se la cultura “altra” potesse fare del male al bambino. Questo
è ciò che pensano molti degli operatori incontrati. Tutti i minori rom, in
quest’ottica diventerebbero dei bambini maltrattati.
L’intervento di tutela
operato in molti contesti diventa quindi quello di allontanare, togliere il
minore dal suo contesto famigliare, per educarlo, come se la cultura rom non
avesse un modello educativo o, per lo meno, come se la cultura rom non avesse un
modello educativo valido. I concetti impliciti che precedono questa riflessione
propria di molti operatori così come di molti magistrati minorili, vedono il
bambino rom come soggetto di una situazione di pregiudizio solo e proprio perché
è rom o perché vive su quel pezzo di terra dove si trova il “campo nomadi”.
Precisamente, i presupposti impliciti di molti operatori sono che:
– la
cultura rom è da considerarsi “mancante”, sempre e comunque, con tutti i
bambini;
– nella cultura rom vi è un’assenza delle capacità genitoriali;

da parte dei genitori e/o della famiglia rom vi è un’assenza della tutela
dell’infanzia.
Sono proprio questi i presupposti in funzione dei quali
l’intervento di tutela sociale e/o civile del minore rom diventa facilmente
quello di tutelarlo dalla sua famiglia o dalla sua cultura. Cosa accade allora
ai minori rom? La ricerca svolta evidenzia che la difficoltà di molti operatori
nel riconoscere l’identità del bambino rom, il suo modello educativo, porta a
gravi situazioni in cui di fatto il minore non viene tutelato.
I circa
duecento casi riscontrati di dichiarazione di adottabilità, infatti, denunciano
un grave “pregiudizio” (così come inteso dal codice civile) nel quale si
troverebbe questa volta non il minore rom, ma il contesto istituzionale che
ruota intorno a quella che dovrebbe essere la tutela di qualsiasi minore. Una
tutela dalla quale il minore rom, paradossalmente, resta escluso.
Abbiamo
quindi situazioni nelle quali i minori trovati in strada da soli o con gli
adulti di riferimento vengono allontanati dai genitori e poi inseriti in
comunità. Una volta in comunità il provvedimento del Tribunale dei Minorenni
dispone che i minori non possano più incontrare i propri famigliari, fino al
termine dell’istruttoria.
Concretamente questo vuol dire che potrà accadere
che i bambini non possano più incontrare i propri genitori per lunghi mesi, con
gravi conseguenze nella loro relazione. Gli avvocati che seguono questi casi
affermano che, probabilmente, in questi casi, il reale interesse dei vari
operatori coinvolti è di trovare il maggior numero possibile di minori per le
famiglie non rom che fanno domanda di adozione.
Come reagire di fronte a
queste gravi denunce? Oppure abbiamo casi in cui i minori vengono allontanati
dalla famiglia perché i servizi sociali valutano che le condizioni abitative del
nucleo, ovvero quelle del “campo nomadi”, non sono adeguate alla tutela di un
minore. Ancora, molte volte ci troviamo di fronte a casi di allontanamento che
avvengono con molta violenza, sulla base del mero pregiudizio personale di un
operatore qualunque che scrive che quel minore non è tutelato perché “mangia con
le mani” o “non indossa il pigiama per andare a dormire”. Con quale presunzione
noi non rom continuiamo a immaginare che il nostro modello di vita sia il
migliore e quello ideale? E, soprattutto, chi lavora nel sociale non dovrebbe
avere una formazione adeguata per lavorare con soggetti che appartengono a
culture differenti?
Talvolta la responsabilità della mancata tutela del
minore viene data alla cultura, talaltra alle istituzioni, che non sarebbero in
grado di offrire a questi nuclei situazioni abitative appropriate. In entrambi i
casi, il risultato è che non viene salvaguardato l’interesse del minore di
vivere nella propria famiglia. Accadrebbe lo stesso se si trattasse di minori
italiani?
Non si vuole qui escludere che possano esserci situazioni di
abbandono dei minori rom, non si vuole accusare gratuitamente il lavoro degli
operatori, ma si vuole mettere in evidenza la contraddizione nella quale invece
cadono in molti (sia gli operatori sociali che della magistratura minorile),
identificando sempre il minore rom come abbandonato, potremmo dire, “alla” e
“dalla” sua cultura.
Possiamo aggiungere quindi che il tema attorno al quale
si sviluppare questa analisi è quello di tutela. Qual’é la nostra concezione
tutela e qual’é quella dei romá? Cosa accade al bambino rom mentre per
l’operatore si sta verificando una situazione di maltrattamento? Da questo
interrogativo si apre una riflessione su due aspetti.
– Sulla definizione di
quella che viene genericamente definita come la soglia in funzione della quale
l’operatore, genericamente inteso, stabilisce che il minore si trova in una
condizione di “pregiudizio”. Una soglia viene banalmente interpretata e
descritta con un criterio di tolleranza personale: per qualcuno sono i piedi
scalzi, piuttosto che il furto o l’accattonaggio o l’appartenenza alla cultura
rom, senza riconoscere che il “pregiudizio” dovrebbe essere quello ravvisato
specificatamente nell’interesse di ciascun minore. Quello che accade è che i
minori rom verranno segnalati all’Autorità Giudiziaria in funzione del grado di
tolleranza personale degli operatori sociali, che, come quella di molti
cittadini, è molto bassa.
– L’altro aspetto riguarda l’applicabilità della
norma giuridica italiana a un contesto culturale differente, un tema che in
Italia resta poco approfondito. Al centro di quest’analisi vi è una discussione
sulla definizione dei margini dell’applicabilità della norma giuridica a un
minore il cui contesto famigliare potrebbe non riconoscere la stessa norma e le
sue finalità. In funzione di quali criteri potremo definire l’abbandono di
fronte a un minore che appartiene a un contesto culturale differente da quello
nel quale è stata elaborata la norma giuridica? Alcuni magistrati portano
riflessioni interessanti a questo proposito, affermando che di fronte al minore
straniero occorre sempre considerare e decodificare il contesto culturale dal
quale proviene, ma il tema resta ampiamente marginale nell’ambito della
magistratura minorile. Il risultato è che pochi magistrati minorili riconoscono
la necessità di decodificare il contesto culturale del minore e che in molti
invece ritengono non opportuno riconoscerne la specificità dettata
dall’appartenenza culturale. Questo è quanto emerge nell’ambito del lavoro di
ricerca svolto.
Quale soluzione proporre? Frequentemente la cultura non-rom
si presenta come “egemone”, più forte di quella dei romá, identificati come
appartenenti a una minoranza culturale. Se davvero si riconosce come tale, la
nostra cultura dovrebbe prendersi la responsabilità di assumere fino in fondo
questo ruolo, creando quegli strumenti che potrebbero anche tutelare il minore
rom e la sua famiglia. Questo vorrebbe dire disporre di quegli strumenti di
conoscenza che si avvicinino il più possibile al contesto culturale del minore,
con il risultato di mettere il minore in una condizione che lo veda tutelato da
entrambe le parti: per la magistratura minorile e per la sua
famiglia.
Dovremo infine smettere di pensare alle cultura rom come una
cultura statica e immutabile, come se i minori fossero destinati alla povertà
materiale e culturale dei loro genitori. Se molti romá oggi vivono nei “campi
nomadi” è perché si tratta di una chiara scelta delle amministrazioni comunali
di mantenere queste comunità in una condizione di grave precarietà sociale e
civile. Se i minori rom oggi non sono tutelati e c’è un sistema giudiziario
minorile che non li tutela la responsabilità è solo nostra.
La seconda
indagine “Sottrazione di minori gagé” originariamente copriva il ventennio dal
1986 al 2005, ma per i fatti successivamente accaduti si è protratta fino al
2007. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dall’archivio Ansa e
arrivando alla consultazione dei fascicoli dei Tribunali, adottando, oltre a
quella giuridica, più prospettive: etnografica, dell’antropologia giuridica ed
etnometodologica.
Per dare un quadro del lavoro svolto, possiamo dire che la
ricerca si è strutturata in tre fasi: individuazione nell’archivio Ansa dei
fatti di nostro interesse; studio del corpus ricavato dall’archivio Ansa per
individuare i casi; lavoro sui casi: consultazione dei fascicoli processuali,
ricostruzione, comparazione. Quest’ultima fase – che partiva, appunto, dalle
informazioni contenute nelle notizie Ansa – ha avuto la sua attività principale
nel contatto con le Forze dell’ordine, Procure e Tribunali al fine di verificare
se il fatto avesse avuto un prosieguo significativo in termini penali. In caso
affermativo, si è cercato di ottenere i permessi per la visione dei fascicoli.
Alcune volte, è stato possibile avere un colloquio con il PM e con gli avvocati;
in altre, la distanza temporale ha complicato questi passaggi. Per molti è stato
possibile anche raccogliere gli articoli apparsi sui giornali e anche su
Internet.
Nella nostra analisi prendiamo in considerazione ventinove casi,
oltre undici di sparizione di minori (dunque, 40 in tutto), sui quali è da
subito opportuno indicare il risultato principale della ricerca, e cioè che non
esiste nessun caso in cui sia avvenuta una sottrazione del bambino: nessun
esito, infatti, corrisponde ad una sottrazione dell’infante effettivamente
avvenuta, ma si è sempre di fronte ad un tentato rapimento, o meglio, ad un
racconto di un tentato rapimento.
Alla confusione che generano i media al
momento della denuncia del fatto, dando come provato e “vero” il tentato
rapimento, se non vi è un arresto non corrisponde quasi mai la notizia
dell’esito dell’azione delle Forze dell’ordine. Nei pochi casi in cui questo
accade, la notizia non è per comunicare che i rom non c’entrano niente, ma è
perché l’esito scioglie in sé altri eventi: truffe, fatti drammatici, situazioni
che suscitano ilarità.
In maniera random si è cercato anche di verificare se
per i casi in cui era stata sporta denuncia, ma in cui i presunti rapitori si
erano dati alla fuga, le indagini avessero risolto la vicenda in qualche modo:
si tratta di un ulteriore accertamento rispetto al fatto che se non c’è stata
più nessuna notizia in merito questo ci può far dire che non si era poi svolto
nessun arresto. D’altra parte – come dicevamo e come alcuni casi dimostrano –
laddove le Forze dell’ordine tramite le proprie indagini verificano che è stato
solo un equivoco, una percezione errata della situazione, la stampa ne dà poca o
nessuna notizia.
La comparazione dei casi ci ha aperto a strade
particolarmente significative, attraverso le quali si sono potuti individuare
gli elementi cardine dei racconti dei tentati rapimenti, che sono pochi e si
ripetono come un frame, un canovaccio concettuale con poche varianti: ad
esempio, nella grande maggioranza, si tratta di ‘donne contro donne’ ossia è la
madre ad accusare una donna rom di aver tentato di prendere il bambino; non ci
sono testimoni del fatto, tranne i diretti interessati; gli eventi accadono
spesso in luoghi affollati come mercati o vie commerciali; nessuno interviene in
soccorso della madre; non di rado appare la paura che vi sia uno ‘scopo oscuro
del rapimento’ per cui la presenza di alcuni mezzi e persone nelle vicinanze
vengono interpretate dalle madri (o da altre figure) come complici della zingara
(ma i controlli lo smentiscono regolarmente).
L’analisi comparativa dei
casi, infine, ci porta a poter affermare che laddove vi è la presenza di un
infante, l’avvicinamento di una persona rom è subito vissuto come un pericolo
per il proprio figlio: lo stereotipo “gli zingari rubano i bambini” risulta
essere molto più potente di qualsiasi altro. Non si ha paura, infatti, che
sottraggano il portafogli o la borsa (secondo lo schema mentale “gli zingari
rubano”), ma che portino via il bambino.
Dai ventinove, estrapoliamo i sei
casi che hanno portato all’apertura del procedimento e dell’azione penale, che
rappresentano il cuore del lavoro di ricerca e che nel testo vengono presentati
e discussi uno ad uno in particolar modo attraverso i fascicoli
processuali.
Si tratta di
– Desenzano del Garda (Brescia) 02/12/1996.
Sentenza di colpevolezza [art. 56 c.p. (delitto tentato) art.605 c.p. (sequestro
di persona)].
– Castelvolturno (Caserta) 18/01/1997. Sentenza di assoluzione
perché il fatto non sussiste.
– Minturno (Latina) 30/08/1997. Archiviazione
del caso.
– Roma 10/10/2001. [Sentenza di colpevolezza art. 56 c.p. (delitto
tentato) art. 574 c.p. (sottrazione di persone incapaci)].
– Lecco 04/02/2005
(il procedimento penale è in corso – II grado).
– Firenze 25/10/2005 (il
procedimento penale è in corso – I grado, il PM nell’ultima udienza del 17
ottobre 2008 ha chiesto l’assoluzione).
Lo sguardo critico proprio della
disciplina antropologica fa emergere dalle carte e dalle aule del tribunale
l’utilizzo delle categorie del senso comune da parte degli operatori del diritto
come base attraverso cui adattare la categorizzazione prevista nei codici alle
circostanze del caso e la costruzione della credibilità dei testimoni nella
quale assume un forte peso la capacità retorica delle due parti, intesa
anzitutto come coerenza interna del discorso quale testimonianza dell’accaduto.
Il tutto retto anche da un ‘ragionevole’ assunto iniziale: la madre non avrebbe
nessun motivo per accusare la zingara di un atto non compiuto, in pratica non
avrebbe alcun senso che la madre si fosse inventata tutto, per cui quello che
ella dice è di partenza da considerarsi in qualche modo “vero”.
Non dobbiamo
scordarci che ci troviamo davanti a persone appartenenti a gruppi socialmente e
giuridicamente deboli: non solo persone immigrate, ma soprattutto e in primo
luogo rom (ma chiamati sempre nomadi) e nella maggior parte dei casi
“sedicenti”. Addirittura nella sentenza di Brescia si legge che la pericolosità
sociale della donna è “in una con la sua condizione di nomade”. Allo stesso modo
per il caso di Roma, non ha nessun peso il fatto che il certificato dei carichi
pendenti dell’imputata risulti negativo: la sua condizione di nomade sedicente
basta – secondo il giudice – a renderla pericolosa e capace di commettere azioni
criminose. Il fatto di essere definite nomadi, giustifica di per sé nei
confronti delle imputate qualsiasi decisione a tutela della
collettività.
Infine, per quanto riguarda episodi di sparizione di bambini
(11 casi analizzati), nella maggioranza molto noti all’opinione pubblica,
abbiamo ricostruito i vari momenti in cui i rom e sinti entravano tra i soggetti
sospetti e gli esiti degli accertamenti che derivavo dall’attività investigativa
(sempre negativi). La drammaticità delle vicende di queste sparizioni si rende
ancora più acuta in quelle narrazioni di cui si conosce l’epilogo: l’opposizione
fra ciò che è accaduto realmente a questi bambini e l’immaginario stereotipico
del rapimento da parte dei rom emerge con una forza squassante. Questi bambini
sono stati vittime di una violenza brutale tutta interna ai contesti dove
vivevano: pedofili, conoscenti, parenti. Anche a partire da questo, il forte
invito è quello di allargare il nostro sguardo, interrogarci e riflettere
maggiormente su noi stessi (sempre che questo noi così netto esista…).
Le
autrici della ricerca
Carlotta Saletti Salza, dottore di
ricerca in Antropologia ottenuto presso la Facultat de Ciències Humanes i
Socials – Departament d’Història, Geografia i Art – di Castellón de la Plana
(Spagna). Svolge da svariati anni attività di ricerca presso Fondazioni e
Univeristà. Ha condotto ricerca etnografica tra le comunità xoraxané a Torino e
in Bosnia su tematiche relative all’educazione famigliare e scolastica e sulla
rappresentazione della morte.
Sabrina Tosi Cambini, dottore
di ricerca in Metodologie della ricerca etno-antropologica presso l’Università
degli Studi di Siena, svolge da svariati anni attività di ricerca presso
Fondazioni, Istituti e Università; è stata operatrice di strada e da tempo
coordina progetti sperimentali di lavoro sociale. Attualmente è docente a
contratto di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Firenze e
di Antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Verona.

(10/11/2008-ITL/ITNET)

Pubblicato in Politica | Commenti disabilitati su Adozioni di minori rom/sinti e sottrazione di minori gagé