Adozioni di minori rom/sinti e sottrazione di minori gagé

L’ampia ricerca “Adozione di minori rom/sinti e sottrazione di
minori gagé” commissionata dalla Fondazione Migrantes al Dipartimento di
Psicologia e Antropologia culturale dell’Università di Verona e alla direzione
del Prof. Leonardo Piasere, si articola in due studi volti a rispondere a
differenti ma complementari interrogativi.
L’uno –– in corso di pubblicazione
presso CISU – volto a verificare quanti bambini figli di rom o sinti siano stati
dati in affidamento e/o adozione dai Tribunali per i Minori italiani a famiglie
gagé, condotto da Carlotta Saletti Salza. L’altro – già edito dallo stesso
editore col titolo “La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze
(1986-2007) – sui presunti tentati rapimenti di infanti non-rom da parte di rom,
condotto da Sabrina Tosi Cambini.
Il progetto di ricerca “Adozione dei minori
rom e sinti” prevedeva la raccolta il più esaustiva possibile di dati
documentati relativi all’affidamento e all’adozione di minori rom e sinti a
famiglie non rom da parte dei tribunali dei minori italiani, nel periodo
compreso tra il 1985 e il 2005, nonché un’analisi dei dati raccolti.
La
scelta è stata quella di condurre una ricerca sull’affidamento e sull’adozione
dei minori rom e sinti a partire dai dati relativi alle dichiarazioni di
adottabilità che sono registrati presso le sedi dei tribunali minorili e dalle
informazioni raccolte nei servizi sociali di territorio, comunali e ospedalieri,
in materia di allontanamento dei minori dal nucleo famigliare.
Quindi, sono
stati raccolti i dati relativi alle dichiarazioni di adottabilità presso otto
(Torino, Bologna, Bari, Lecce, Trento, Firenze, Venezia e Napoli) delle
ventinove sedi dei tribunali minorili e sono stati svolti colloqui con i servizi
sociali di riferimento. Complessivamente, i casi di minori rom e sinti
dichiarati adottabili sono oltre duecento.
I dati raccolti in ciascuna delle
sedi dove si è svolto il lavoro di ricerca mostrano differenze rilevanti legate
al contesto storico e sociale all’interno del quale, nel corso degli anni, si
sono inserite le differenti comunità rom e sinte. Per fare un esempio, vi sono
situazioni nelle quali troviamo una mancanza di tradizione del lavoro dei
servizi sociali (come a Lecce, dove assistiamo a una pericolosa inversione di
ruoli dal momento che l’Autorità Giudiziaria minorile si sostituisce alla tutela
sociale che dovrebbero invece esercitare i servizi di territorio) e contesti nei
quali invece i servizi sociali vantano una sorta di specializzazione nel lavoro
con le comunità rom (vedi il caso di Firenze, Torino, Venezia), con una
pericolosa stigmatizzazione della cultura da parte dei differenti operatori
coinvolti.

Nel complesso, l’analisi dei dati mostra la
facilità con la quale, nelle diverse realtà analizzate, la tutela sociale (dei
servizi di territorio) e civile (dell’Autorità Giudiziaria) scivolano
nell’indifferenziare l’identità di un minore rom con quella di un minore
maltrattato. Come se la cultura “altra” potesse fare del male al bambino. Questo
è ciò che pensano molti degli operatori incontrati. Tutti i minori rom, in
quest’ottica diventerebbero dei bambini maltrattati.
L’intervento di tutela
operato in molti contesti diventa quindi quello di allontanare, togliere il
minore dal suo contesto famigliare, per educarlo, come se la cultura rom non
avesse un modello educativo o, per lo meno, come se la cultura rom non avesse un
modello educativo valido. I concetti impliciti che precedono questa riflessione
propria di molti operatori così come di molti magistrati minorili, vedono il
bambino rom come soggetto di una situazione di pregiudizio solo e proprio perché
è rom o perché vive su quel pezzo di terra dove si trova il “campo nomadi”.
Precisamente, i presupposti impliciti di molti operatori sono che:
– la
cultura rom è da considerarsi “mancante”, sempre e comunque, con tutti i
bambini;
– nella cultura rom vi è un’assenza delle capacità genitoriali;

da parte dei genitori e/o della famiglia rom vi è un’assenza della tutela
dell’infanzia.
Sono proprio questi i presupposti in funzione dei quali
l’intervento di tutela sociale e/o civile del minore rom diventa facilmente
quello di tutelarlo dalla sua famiglia o dalla sua cultura. Cosa accade allora
ai minori rom? La ricerca svolta evidenzia che la difficoltà di molti operatori
nel riconoscere l’identità del bambino rom, il suo modello educativo, porta a
gravi situazioni in cui di fatto il minore non viene tutelato.
I circa
duecento casi riscontrati di dichiarazione di adottabilità, infatti, denunciano
un grave “pregiudizio” (così come inteso dal codice civile) nel quale si
troverebbe questa volta non il minore rom, ma il contesto istituzionale che
ruota intorno a quella che dovrebbe essere la tutela di qualsiasi minore. Una
tutela dalla quale il minore rom, paradossalmente, resta escluso.
Abbiamo
quindi situazioni nelle quali i minori trovati in strada da soli o con gli
adulti di riferimento vengono allontanati dai genitori e poi inseriti in
comunità. Una volta in comunità il provvedimento del Tribunale dei Minorenni
dispone che i minori non possano più incontrare i propri famigliari, fino al
termine dell’istruttoria.
Concretamente questo vuol dire che potrà accadere
che i bambini non possano più incontrare i propri genitori per lunghi mesi, con
gravi conseguenze nella loro relazione. Gli avvocati che seguono questi casi
affermano che, probabilmente, in questi casi, il reale interesse dei vari
operatori coinvolti è di trovare il maggior numero possibile di minori per le
famiglie non rom che fanno domanda di adozione.
Come reagire di fronte a
queste gravi denunce? Oppure abbiamo casi in cui i minori vengono allontanati
dalla famiglia perché i servizi sociali valutano che le condizioni abitative del
nucleo, ovvero quelle del “campo nomadi”, non sono adeguate alla tutela di un
minore. Ancora, molte volte ci troviamo di fronte a casi di allontanamento che
avvengono con molta violenza, sulla base del mero pregiudizio personale di un
operatore qualunque che scrive che quel minore non è tutelato perché “mangia con
le mani” o “non indossa il pigiama per andare a dormire”. Con quale presunzione
noi non rom continuiamo a immaginare che il nostro modello di vita sia il
migliore e quello ideale? E, soprattutto, chi lavora nel sociale non dovrebbe
avere una formazione adeguata per lavorare con soggetti che appartengono a
culture differenti?
Talvolta la responsabilità della mancata tutela del
minore viene data alla cultura, talaltra alle istituzioni, che non sarebbero in
grado di offrire a questi nuclei situazioni abitative appropriate. In entrambi i
casi, il risultato è che non viene salvaguardato l’interesse del minore di
vivere nella propria famiglia. Accadrebbe lo stesso se si trattasse di minori
italiani?
Non si vuole qui escludere che possano esserci situazioni di
abbandono dei minori rom, non si vuole accusare gratuitamente il lavoro degli
operatori, ma si vuole mettere in evidenza la contraddizione nella quale invece
cadono in molti (sia gli operatori sociali che della magistratura minorile),
identificando sempre il minore rom come abbandonato, potremmo dire, “alla” e
“dalla” sua cultura.
Possiamo aggiungere quindi che il tema attorno al quale
si sviluppare questa analisi è quello di tutela. Qual’é la nostra concezione
tutela e qual’é quella dei romá? Cosa accade al bambino rom mentre per
l’operatore si sta verificando una situazione di maltrattamento? Da questo
interrogativo si apre una riflessione su due aspetti.
– Sulla definizione di
quella che viene genericamente definita come la soglia in funzione della quale
l’operatore, genericamente inteso, stabilisce che il minore si trova in una
condizione di “pregiudizio”. Una soglia viene banalmente interpretata e
descritta con un criterio di tolleranza personale: per qualcuno sono i piedi
scalzi, piuttosto che il furto o l’accattonaggio o l’appartenenza alla cultura
rom, senza riconoscere che il “pregiudizio” dovrebbe essere quello ravvisato
specificatamente nell’interesse di ciascun minore. Quello che accade è che i
minori rom verranno segnalati all’Autorità Giudiziaria in funzione del grado di
tolleranza personale degli operatori sociali, che, come quella di molti
cittadini, è molto bassa.
– L’altro aspetto riguarda l’applicabilità della
norma giuridica italiana a un contesto culturale differente, un tema che in
Italia resta poco approfondito. Al centro di quest’analisi vi è una discussione
sulla definizione dei margini dell’applicabilità della norma giuridica a un
minore il cui contesto famigliare potrebbe non riconoscere la stessa norma e le
sue finalità. In funzione di quali criteri potremo definire l’abbandono di
fronte a un minore che appartiene a un contesto culturale differente da quello
nel quale è stata elaborata la norma giuridica? Alcuni magistrati portano
riflessioni interessanti a questo proposito, affermando che di fronte al minore
straniero occorre sempre considerare e decodificare il contesto culturale dal
quale proviene, ma il tema resta ampiamente marginale nell’ambito della
magistratura minorile. Il risultato è che pochi magistrati minorili riconoscono
la necessità di decodificare il contesto culturale del minore e che in molti
invece ritengono non opportuno riconoscerne la specificità dettata
dall’appartenenza culturale. Questo è quanto emerge nell’ambito del lavoro di
ricerca svolto.
Quale soluzione proporre? Frequentemente la cultura non-rom
si presenta come “egemone”, più forte di quella dei romá, identificati come
appartenenti a una minoranza culturale. Se davvero si riconosce come tale, la
nostra cultura dovrebbe prendersi la responsabilità di assumere fino in fondo
questo ruolo, creando quegli strumenti che potrebbero anche tutelare il minore
rom e la sua famiglia. Questo vorrebbe dire disporre di quegli strumenti di
conoscenza che si avvicinino il più possibile al contesto culturale del minore,
con il risultato di mettere il minore in una condizione che lo veda tutelato da
entrambe le parti: per la magistratura minorile e per la sua
famiglia.
Dovremo infine smettere di pensare alle cultura rom come una
cultura statica e immutabile, come se i minori fossero destinati alla povertà
materiale e culturale dei loro genitori. Se molti romá oggi vivono nei “campi
nomadi” è perché si tratta di una chiara scelta delle amministrazioni comunali
di mantenere queste comunità in una condizione di grave precarietà sociale e
civile. Se i minori rom oggi non sono tutelati e c’è un sistema giudiziario
minorile che non li tutela la responsabilità è solo nostra.
La seconda
indagine “Sottrazione di minori gagé” originariamente copriva il ventennio dal
1986 al 2005, ma per i fatti successivamente accaduti si è protratta fino al
2007. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dall’archivio Ansa e
arrivando alla consultazione dei fascicoli dei Tribunali, adottando, oltre a
quella giuridica, più prospettive: etnografica, dell’antropologia giuridica ed
etnometodologica.
Per dare un quadro del lavoro svolto, possiamo dire che la
ricerca si è strutturata in tre fasi: individuazione nell’archivio Ansa dei
fatti di nostro interesse; studio del corpus ricavato dall’archivio Ansa per
individuare i casi; lavoro sui casi: consultazione dei fascicoli processuali,
ricostruzione, comparazione. Quest’ultima fase – che partiva, appunto, dalle
informazioni contenute nelle notizie Ansa – ha avuto la sua attività principale
nel contatto con le Forze dell’ordine, Procure e Tribunali al fine di verificare
se il fatto avesse avuto un prosieguo significativo in termini penali. In caso
affermativo, si è cercato di ottenere i permessi per la visione dei fascicoli.
Alcune volte, è stato possibile avere un colloquio con il PM e con gli avvocati;
in altre, la distanza temporale ha complicato questi passaggi. Per molti è stato
possibile anche raccogliere gli articoli apparsi sui giornali e anche su
Internet.
Nella nostra analisi prendiamo in considerazione ventinove casi,
oltre undici di sparizione di minori (dunque, 40 in tutto), sui quali è da
subito opportuno indicare il risultato principale della ricerca, e cioè che non
esiste nessun caso in cui sia avvenuta una sottrazione del bambino: nessun
esito, infatti, corrisponde ad una sottrazione dell’infante effettivamente
avvenuta, ma si è sempre di fronte ad un tentato rapimento, o meglio, ad un
racconto di un tentato rapimento.
Alla confusione che generano i media al
momento della denuncia del fatto, dando come provato e “vero” il tentato
rapimento, se non vi è un arresto non corrisponde quasi mai la notizia
dell’esito dell’azione delle Forze dell’ordine. Nei pochi casi in cui questo
accade, la notizia non è per comunicare che i rom non c’entrano niente, ma è
perché l’esito scioglie in sé altri eventi: truffe, fatti drammatici, situazioni
che suscitano ilarità.
In maniera random si è cercato anche di verificare se
per i casi in cui era stata sporta denuncia, ma in cui i presunti rapitori si
erano dati alla fuga, le indagini avessero risolto la vicenda in qualche modo:
si tratta di un ulteriore accertamento rispetto al fatto che se non c’è stata
più nessuna notizia in merito questo ci può far dire che non si era poi svolto
nessun arresto. D’altra parte – come dicevamo e come alcuni casi dimostrano –
laddove le Forze dell’ordine tramite le proprie indagini verificano che è stato
solo un equivoco, una percezione errata della situazione, la stampa ne dà poca o
nessuna notizia.
La comparazione dei casi ci ha aperto a strade
particolarmente significative, attraverso le quali si sono potuti individuare
gli elementi cardine dei racconti dei tentati rapimenti, che sono pochi e si
ripetono come un frame, un canovaccio concettuale con poche varianti: ad
esempio, nella grande maggioranza, si tratta di ‘donne contro donne’ ossia è la
madre ad accusare una donna rom di aver tentato di prendere il bambino; non ci
sono testimoni del fatto, tranne i diretti interessati; gli eventi accadono
spesso in luoghi affollati come mercati o vie commerciali; nessuno interviene in
soccorso della madre; non di rado appare la paura che vi sia uno ‘scopo oscuro
del rapimento’ per cui la presenza di alcuni mezzi e persone nelle vicinanze
vengono interpretate dalle madri (o da altre figure) come complici della zingara
(ma i controlli lo smentiscono regolarmente).
L’analisi comparativa dei
casi, infine, ci porta a poter affermare che laddove vi è la presenza di un
infante, l’avvicinamento di una persona rom è subito vissuto come un pericolo
per il proprio figlio: lo stereotipo “gli zingari rubano i bambini” risulta
essere molto più potente di qualsiasi altro. Non si ha paura, infatti, che
sottraggano il portafogli o la borsa (secondo lo schema mentale “gli zingari
rubano”), ma che portino via il bambino.
Dai ventinove, estrapoliamo i sei
casi che hanno portato all’apertura del procedimento e dell’azione penale, che
rappresentano il cuore del lavoro di ricerca e che nel testo vengono presentati
e discussi uno ad uno in particolar modo attraverso i fascicoli
processuali.
Si tratta di
– Desenzano del Garda (Brescia) 02/12/1996.
Sentenza di colpevolezza [art. 56 c.p. (delitto tentato) art.605 c.p. (sequestro
di persona)].
– Castelvolturno (Caserta) 18/01/1997. Sentenza di assoluzione
perché il fatto non sussiste.
– Minturno (Latina) 30/08/1997. Archiviazione
del caso.
– Roma 10/10/2001. [Sentenza di colpevolezza art. 56 c.p. (delitto
tentato) art. 574 c.p. (sottrazione di persone incapaci)].
– Lecco 04/02/2005
(il procedimento penale è in corso – II grado).
– Firenze 25/10/2005 (il
procedimento penale è in corso – I grado, il PM nell’ultima udienza del 17
ottobre 2008 ha chiesto l’assoluzione).
Lo sguardo critico proprio della
disciplina antropologica fa emergere dalle carte e dalle aule del tribunale
l’utilizzo delle categorie del senso comune da parte degli operatori del diritto
come base attraverso cui adattare la categorizzazione prevista nei codici alle
circostanze del caso e la costruzione della credibilità dei testimoni nella
quale assume un forte peso la capacità retorica delle due parti, intesa
anzitutto come coerenza interna del discorso quale testimonianza dell’accaduto.
Il tutto retto anche da un ‘ragionevole’ assunto iniziale: la madre non avrebbe
nessun motivo per accusare la zingara di un atto non compiuto, in pratica non
avrebbe alcun senso che la madre si fosse inventata tutto, per cui quello che
ella dice è di partenza da considerarsi in qualche modo “vero”.
Non dobbiamo
scordarci che ci troviamo davanti a persone appartenenti a gruppi socialmente e
giuridicamente deboli: non solo persone immigrate, ma soprattutto e in primo
luogo rom (ma chiamati sempre nomadi) e nella maggior parte dei casi
“sedicenti”. Addirittura nella sentenza di Brescia si legge che la pericolosità
sociale della donna è “in una con la sua condizione di nomade”. Allo stesso modo
per il caso di Roma, non ha nessun peso il fatto che il certificato dei carichi
pendenti dell’imputata risulti negativo: la sua condizione di nomade sedicente
basta – secondo il giudice – a renderla pericolosa e capace di commettere azioni
criminose. Il fatto di essere definite nomadi, giustifica di per sé nei
confronti delle imputate qualsiasi decisione a tutela della
collettività.
Infine, per quanto riguarda episodi di sparizione di bambini
(11 casi analizzati), nella maggioranza molto noti all’opinione pubblica,
abbiamo ricostruito i vari momenti in cui i rom e sinti entravano tra i soggetti
sospetti e gli esiti degli accertamenti che derivavo dall’attività investigativa
(sempre negativi). La drammaticità delle vicende di queste sparizioni si rende
ancora più acuta in quelle narrazioni di cui si conosce l’epilogo: l’opposizione
fra ciò che è accaduto realmente a questi bambini e l’immaginario stereotipico
del rapimento da parte dei rom emerge con una forza squassante. Questi bambini
sono stati vittime di una violenza brutale tutta interna ai contesti dove
vivevano: pedofili, conoscenti, parenti. Anche a partire da questo, il forte
invito è quello di allargare il nostro sguardo, interrogarci e riflettere
maggiormente su noi stessi (sempre che questo noi così netto esista…).
Le
autrici della ricerca
Carlotta Saletti Salza, dottore di
ricerca in Antropologia ottenuto presso la Facultat de Ciències Humanes i
Socials – Departament d’Història, Geografia i Art – di Castellón de la Plana
(Spagna). Svolge da svariati anni attività di ricerca presso Fondazioni e
Univeristà. Ha condotto ricerca etnografica tra le comunità xoraxané a Torino e
in Bosnia su tematiche relative all’educazione famigliare e scolastica e sulla
rappresentazione della morte.
Sabrina Tosi Cambini, dottore
di ricerca in Metodologie della ricerca etno-antropologica presso l’Università
degli Studi di Siena, svolge da svariati anni attività di ricerca presso
Fondazioni, Istituti e Università; è stata operatrice di strada e da tempo
coordina progetti sperimentali di lavoro sociale. Attualmente è docente a
contratto di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Firenze e
di Antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Verona.

(10/11/2008-ITL/ITNET)

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