IL FENOMENO DELL’IMMIGRAZIONE NELLE SOCIETA’ AVANZATE

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La planetarizzazione del fenomeno migratorio.
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La tutela del diritto internazionale.
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175 milioni di persone vivono in un paese diverso da quello in cui sono nati.
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I rifugiati.
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La condizione degli immigrati nell’Unione Europea.
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La tratta degli esseri umani e le vittime dell’immigrazione clandestina.
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Le rimesse degli immigrati per i paesi in via di sviluppo.
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Le cause dei processi migratori: invecchiamento della popolazione e povertà.
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Razzismo, xenofobia e immigrazione.
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Che cosa significa integrazione.
La planetarizzazione del fenomeno migratorio
Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Furono ammassati in uno stadio, a decine di migliaia, nell’agosto
1991, donne, uomini e bambini albanesi arrivati nel porto di Bari su navi straboccanti di speranze e di
umanità.
Simbolicamente, quella scena – carica anche della violenza di cui sono capaci, in certe
circostanze, i disperati – rappresenta per l’Italia, e quindi anche per l’Europa, l’accelerazione di
un’immigrazione di massa, che non stenta a terminare, per il semplice motivo che non può terminare,
considerate le condizioni di sottosviluppo e di arretratezza nelle quali vivono quasi i due terzi
dell’umanità.
Per questa umanità, un possibile rifugio, un possibile aggrapparsi alla vita, è rappresentato da
quelle società avanzate che sembrano, nella loro maggioranza, non comprendere la necessità che per
fronteggiare questo fenomeno è indispensabile coltivare un’accoglienza che sia sinonimo di
integrazione, sociale e umana, all’interno dei paesi di arrivo.
Nella Giornata Mondiale dedicata ai Migranti, nel gennaio scorso, Benedetto XVI è intervenuto,
affermando: "Auspico che si giunga presto ad una gestione bilanciata dei flussi migratori e della
mobilità umana in generale, così da portare benefici all'intera famiglia umana, cominciando con misure
concrete che favoriscano l'emigrazione regolare e i ricongiungimenti familiari, con particolare
attenzione per le donne e i minori".
Non esiste al mondo un paese che non sia toccato dai fenomeni migratori, in partenza o in arrivo.
Una previsione precisa delle future tendenze del fenomeno è molto difficile, ma gli studiosi sono
concordi nell’affermare che le migrazioni non faranno che aumentare, che non riusciranno a risolvere i
gravi problemi dell'occupazione e dello sviluppo dei Paesi poveri, e che un consistente aiuto per lo
sviluppo economico e sociale dei suddetti Paesi, unito alla stabilità politica e al rispetto dei diritti umani,
saranno i mezzi per ridurre, in qualche modo, la pressione migratoria.
La planetarizzazione del fenomeno migratorio è accompagnata da mutamenti rapidi e continui
delle direttrici dei flussi. La facilità dei viaggi e delle comunicazioni, l'influsso dei media, i rapidi
cambiamenti sociopolitici fanno spostare in continuazione i lavoratori, tanto che l'immagine prevalente
del futuro, secondo molti studiosi, sarà quella del "lavoratore a contratto": un uomo senza fissa dimora,
prodotto tipico della cultura postmoderna, a cui sembra vietato essere ancorato a strutture solide.
La tutela del diritto internazionale
Il 18 dicembre 1990, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione
Internazionale sulla Protezione dei Diritti dei Lavoratori Migranti e dei Membri delle loro Famiglie, allo
scopo di integrare la normativa esistente promossa dalla Convenzione OIL n. 97 del 1949 e dalla n. 143
del 1975.
La Convenzione ONU, che è entrata in vigore solo il primo luglio 2003, fornisce una definizione
internazionale di "lavoratori migranti" e dei membri delle loro famiglie, stabilendo degli standard
internazionali per il loro trattamento.
La sua importanza, dunque, può essere attribuita al fatto che i lavoratori migranti non sono visti
solo come forza lavoro, ma anche come entità sociali e membri di un nucleo familiare; di conseguenza,
essi sono titolari di diritti fondamentali ed inalienabili.
La Convenzione considera che i lavoratori migranti, non essendo cittadini dello Stato in cui
lavorano, rappresentano una categoria vulnerabile, non protetta e bisognosa di particolare tutela.
Riconosce che la legislazione nazionale dei Paesi di origine o di destinazione spesso non tutela i
diritti dei soggetti in questione: per questo la comunità internazionale, attraverso l'ONU, deve adottare
misure per un’adeguata protezione.
La portata innovativa della Convenzione riguarda il fatto che tutti i lavoratori migranti ed i
membri delle loro famiglie dovrebbero godere dei diritti umani fondamentali a prescindere dal fatto che
siano in possesso o meno dell’autorizzazione prevista dalle rispettive legislazioni nazionali.
Un aspetto che merita senz’altro di essere rilevato è che la Convenzione ONU definisce il
migrante sprovvisto di autorizzazione a soggiornare irregolare e non illegale: tale qualifica, infatti, può
essere attribuita in maniera corretta ed appropriata dall’autorità giudiziaria.
In virtù di ciò, a tutti i lavoratori migranti e ai loro familiari, compresi coloro che si trovano in
situazioni irregolari, sono garantiti i diritti umani (artt. 8-35).
In base al principio di uguaglianza di trattamento con i nazionali e di non discriminazione, essi
godono di una serie di diritti relativi alla vita, ad uguali condizioni di lavoro e di impiego con i nazionali
dello Stato in cui si trovano, ad una libera scelta dell’attività lavorativa, allo spostamento e stabilimento,
alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione e di culto, alla sicurezza personale.
Sono anche garantiti il diritto alla salute, all’educazione ed alla formazione professionale, al
ricongiungimento familiare ed il diritto a trasferire i loro guadagni, risparmi ed effetti personali alla
scadenza del soggiorno nello Stato d’impiego.
Sono previsti una serie di divieti, volti ad evitare i trattamenti crudeli, inumani o degradanti sul
lavoro, quali la tortura, la schiavitù ed il lavoro forzato, la privazione arbitraria di beni; la detenzione il
trattamento giudiziario arbitrario, la confisca e la distruzione di documenti di identità; l’espulsione
collettiva, la discriminazione sul lavoro ed in materia di previdenza sociale.
175 milioni di persone vivono in un paese diverso da quello in cui sono nati
Nel rapporto del Dipartimento affari economici e sociali delle Nazioni Unite – redatto da una
commissione di esperti demografici di 47 paesi – diffuso nei mesi scorsi, si fa una previsione, relativa ai
prossimi anni, sui maggiori destinatari di immigrati stranieri:
Stati Uniti (1,1 milioni all’anno);
Canada (200.000);
Germania (150.000);
Italia (139.000);
Regno Unito (130 mila);
Spagna (120mila);
Australia (100.000).
L’ONU calcola che una persona su 35 vive o lavora in un paese diverso da quello in cui è nato e
che la popolazione immigrata è raddoppiata negli ultimi 35 anni.
Questo vuol dire che 175 milioni di persone risiedono in un paese differente di quello di nascita.
Di questi, il 56,3% lavorano o risiedono nei paesi in via di sviluppo, mentre solo 43,7% dei migranti si
trova nei paesi a sviluppo avanzato; 86 milioni sono gli adulti economicamente attivi e impegnati nel
processo produttivo.
La cifra è raddoppiata negli ultimi 25 anni. Quasi un terzo (56 milioni) degli immigrati vivono in
Europa. Sono gli Stati membri dell’Unione Europea ad impiegare un grande numero di manodopera
straniera per coprire le carenze di alcuni settori produttivi, senza insediamenti definitivi.
Se si tiene presente che nei Paesi in via di sviluppo (PVS) risiede l’85% della popolazione
mondiale, che deve vivere con una media 3.500 dollari pro-capite all’anno, contro 25.600 dollari dei
Paesi ricchi, si capisce anche come in un mondo globalizzato, dove circolano beni, capitali ed
informazioni, è ben difficile pensare di fermare i flussi migratori.
Secondo recenti dati (sempre di fonte ONU), il differenziale demografico tra Africa ed Europa è
di oltre 5 punti percentuali, un gap storicamente tra i più grandi. In termini numerici questo significa che
tra il 2000 ed il 2020 sono stati ipotizzati 50 milioni di persone in piú (in etá tra i 20 ed i 40 anni)
nell’Africa del Nord e ben 120 milioni in piú nell’Africa Subsahariana. In Europa, ancora oggi sono
polo di attrazione forte paesi come la Germania, la Francia, il Regno Unito, l’Ucraina e Italia.
I rifugiati
All’interno del fenomeno immigrazione, ma con specificità propria, c’è anche la problematica
dei rifugiati, per l’84,8% concentrati nei paesi in via di sviluppo ove vi è un rifugiato ogni sette
migranti, mentre nei PSA vi è un rifugiato ogni trentuno migranti. Il continente che ospita il maggior
numero di rifugiati è l’Asia (9.187 pari al 60% del totale), seguito dall’Africa e dall’Europa.
Nel giugno scorso, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha
annunciato che nel 2006 il numero di rifugiati nel mondo è aumentato per la prima volta dal 2002,
principalmente a causa della situazione di crisi in Iraq.
Si è registrato un aumento del 14% di rifugiati di competenza dell’Agenzia. Nel corso del 2006,
è aumentato anche il numero di sfollati interni protetti o assistiti dall’agenzia, passando da 6,6 a 12,9
milioni. Il numero di rifugiati iracheni sarebbe almeno di 2,2 milioni nei soli paesi della regione. Sono
esclusi i rifugiati palestinesi (circa 4,3 milioni) che si trovano in Giordania, Libano, Siria e nei Territori
Palestinesi Occupati, di competenza di un’altra agenzia, che sommati, danno un totale di oltre 14 milioni
di persone.
La condizione degli immigrati nell’Unione Europea
In base ai dati del Rapporto annuale Caritas-Migrantes sull’immigrazione, presentato il 30
ottobre scorso, nell’UE a 27, un’area con circa mezzo miliardo di persone, gli immigrati con
cittadinanza straniera sono circa 28 milioni (inizio 2006), ma si arriva a circa 50 milioni se si includono
quanti nel frattempo hanno acquisito la cittadinanza. Questa presenza è destinata ad aumentare, stando
alle previsioni che tengono conto delle esigenze demografiche e occupazionali. Tra gli elementi chiave
dell’unificazione europea è inclusa anche la libera circolazione dei lavoratori e, pertanto, il fenomeno
migratorio ha segnato l’Europa unita nell’arco di tutta la sua storia.
L’Unione Europea si presenta così come un’area ad alta concentrazione di immigrati, la cui
presenza costituisce una necessità demografica, perché il Vecchio continente, anche se è prevista
un’immigrazione netta di 40 milioni di persone, nel 2050 vedrà comunque diminuire di 7 milioni di
unità la popolazione nel suo complesso e di 52 milioni di unità la popolazione in età da lavoro.
L’incidenza degli immigrati è del 5,6% sulla popolazione complessiva, con variazioni notevoli:
lo 0,5% nei due nuovi paesi membri (Romania e Bulgaria), tra il 4% e l’8% negli Stati dell’Unione a 15.
Sono rilevanti le concentrazioni in alcune regioni: in Francia il 40% degli stranieri vive nell’area
parigina, dove un residente su otto è cittadino straniero; nel Regno Unito oltre un terzo della
popolazione straniera risiede nell’area metropolitana di Londra; in Spagna circa la metà degli immigrati
si è insediata a Madrid e nella Catalogna. In Italia, invece, è più marcata la diffusione territoriale e solo
un quinto degli immigrati si trova nelle province di Milano e di
Roma.
Nei paesi di vecchia immigrazione la presenza degli immigrati è rimasta stabile, o è leggermente
diminuita come in Germania, mentre nei paesi di nuova immigrazione (quelli mediterranei) essa è
andata aumentando.
I due terzi della popolazione immigrata sono costituiti da non comunitari: il 32% da europei non
UE (in gran parte russi, turchi e balcanici), il 22% da africani (di cui due terzi provenienti dalle regioni
settentrionali), il 16% da asiatici (equamente distribuiti tra immigrati dell’Estremo Oriente, Cina in
testa, e del subcontinente indiano) e il 15% da americani (in gran parte latinoamericani).
Non vengono più registrati come immigrati le centinaia di migliaia di stranieri che ogni anno
ottengono la cittadinanza del paese di residenza (nel 2005, 162 mila nel Regno Unito, 150 mila in
Francia, 117 mila in Germania e 29 mila in Italia), con incidenze differenziate sull’insieme della
popolazione straniera soggiornante (5,7% nel Regno Unito, 1,6% in Germania e meno dell’1% in Italia).
Quando si parla di presenza immigrata bisognerebbe tenere presenti anche queste persone, nate
all’estero e diventate cittadine (in Gran Bretagna sono il doppio rispetto ai 3 milioni di cittadini
stranieri), come anche le seconde e le terze generazioni nate sul posto.
Per quanto riguarda l’Italia, nel 2006, allo sforzo di raddoppiare le quote annuali di
lavoratori provenienti dall’estero (portate a 170.000) hanno fatto seguito domande di assunzione tre
volte più ampie, evidenziando le carenze dei meccanismi di incontro tra domanda e offerta. Da anni si
continua a presupporre che i lavoratori stranieri da assumere aspettino dall’estero la loro
chiamata, mentre è risaputo che, in attesa di essere ufficialmente assunti, essi già hanno iniziato a
lavorare in Italia. Le 540 mila domande di assunzione presentate hanno reso necessaria l’emanazione di
un secondo decreto flussi, che ha disposto ulteriori 350.000 ingressi.
Per quanto riguarda i paesi di origine di questi lavoratori, al primo posto della graduatoria
troviamo la Romania (oltre 130.000 domande), seguita a grande distanza da Marocco (50.000
domande), Ucraina e Moldavia (35.000 domande ciascuno), Albania (30.000), Cina (27.000),
Bangladesh (20.000 domande). Chiudono la serie dei primi 10 paesi, l’India, e, allo stesso livello
numerico, lo Sri Lanka e la Tunisia, che registrano il primo 13.000 e gli altri due paesi circa
10.000 domande.
I flussi irregolari sono un problema di dimensione europea. L’intensità dei flussi irregolari può
essere favorita, in Europa, oltre che dalla posizione geografica, anche da altre cause:
quote di ingresso non adeguate, scarsa praticabilità dei percorsi stabiliti per l’inserimento legale e per
l’incontro tra datori di lavoro e persone da assumere, diffusione dell’area del lavoro nero e precarirtà
dello status di regolari. L’area dell’irregolarità, quando è troppo estesa, rende la società meno
disponibile all’accoglienza e perciò è indispensabile un’analisi senza pregiudizi che riesca a individuare
le piste praticabili per il suo ridimensionamento.
Di seguito, la situazione degli immigrati irregolari nell’UE (è indicata anche la percentuale
rispetto al totale della popolazione del paese:
Austria 814.100 (9,8);
Germania (2004) 7.287.900 (8,8);
Polonia (2001) 700.300 (1,8);
Belgio 900.500 (8,6);
Grecia (2003) 891.200 (8,1);
Portogallo 432.000 (4,1);
Bulgaria (2000) 25.600 (0,3);
Irlanda 314.100 (7,4);
Regno Un. (2004) 3.066.100 (5,2);
Rep. Ceca 258.400 (2,5);
Italia 2.286.000 (3,9);
Romania 25.900 (0,1);
Cipro (2004) 98.100 (13,1);
Lettonia 456.800 (19,9);
Slovacchia 25.600 (0,5);
Danimarca 270.100 (5,0);
Lituania 32.900 (1,0);
Slovenia 48.900 (2,4);
Estonia (1999) 274.300 (20,0);
Lussemburgo 181.800 (39,6);
Spagna 4.002.500 (9,1);
Finlandia 113.900 (2,2);
Malta (2004) 11.900 (3,0);
Svezia 479.900 (5,3);
Francia (1999) 3.263.200 (5,6);
Paesi Bassi 691.400 (4,2);
Ungheria 156.200 (1,5).
L’Agenzia Europea Eurofond per la Sicurezza e la Salute e sul Lavoro ha analizzato in un
Rapporto le condizioni di lavoro degli immigrati legali nell’Unione Europea. L’espansione del settore
dei servizi e l’aumento dei lavori altamente qualificati hanno consentito agli immigrati di entrare
facilmente nel mercato del lavoro accettando quegli impieghi poco qualificati o pericolosi –come nel
settore dell’edilizia e delle costruzioni - che gli europei non vogliono più svolgere.
In base ai dati del rapporto, la categoria più svantaggiata è quella delle donne. Le donne soffrono
di doppia o addirittura tripla discriminazione, dovuta al sesso, all’origine e alla classe. Impiegate nel
settore sanitario e sociale conoscono poca opportunità di carriera e promozione, nonostante la loro
importanza nel flusso migratorio.
Un altro gruppo che fatica a trovare lavoro nei Paesi Europei sono gli immigrati islamici. I
pregiudizi e i sospetti legati agli avvenimenti degli ultimi anni non li aiutano ad essere assunti da
nessuna parte.
Il Rapporto evidenzia anche che i lavoratori stranieri, nonostante rappresentino un segmento
vulnerabile della forza lavoro, sono spesso poco rappresentati dalle associazioni sindacali. E’ il caso di
Danimarca, Ungheria, Polonia e Regno Unito, dove i lavoratori tendono a concentrarsi nel settore
privato invece che nel pubblico. A differenza di Italia e Cipro, dove invece sono impiegati soprattutto
nel settore dell’industriale e dell’edilizia, da sempre molto sindacalizzati, e costituiscono una forte
presenza nelle associazioni di categoria. In Irlanda, Lussemburgo e Spagna, le associazioni sindacali
hanno promosso campagne pubbliche per incoraggiare la sindacalizzazione dei lavoratori stranieri e per
far conoscere meglio i loro diritti sul luogo di lavoro.
Secondo recenti valutazioni dell’Ufficio del commissario UE responsabile del portafoglio
Giustizia, Libertà e Sicurezza, Franco Frattini, gli immigrati irregolari nell'UE sarebbero fra i 4,5 e gli 8
milioni, con un aumento stimato fra i 350.000 e i 500.000 all'anno.
Si calcola che fra il 7% e il 16% del PIL dell'UE provenga dall'economia sommersa, anche se
non interamente dal lavoro dei clandestini. L'edilizia, l'agricoltura, i lavori domestici, i servizi di pulizia,
di catering e altri servizi alberghieri sono i settori economici più inclini al ricorso al lavoro sommerso in
generale, e di particolare interesse per gli immigrati irregolari.
L’Ufficio del Commissario stima che siano tra i 3 e i 4mila ogni anno i morti tra gli immigrati
clandestini, vittime di viaggi tragici, che intraprendono per raggiungere i paesi dell’Unione europea.
Gli Stati membri prevedono già sanzioni per lottare contro il lavoro illegale, che però variano sia
per severità che per modalità di applicazione, e l'esperienza mostra che i sistemi esistenti non hanno
permesso di ottenere l'effetto voluto.
Nell'Unione Europea vi sono attualmente 22 milioni di imprese legalmente stabilite.
Le verifiche dei registri del personale sono rare: nel 2006 ne è stato controllato poco più del 2%.
Secondo la proposta presentata dal Commissario Frattini, i datori di lavoro, prima di assumere un
cittadino di un paese terzo, dovranno effettuare una serie di accertamenti e inviare una notifica
all'autorità nazionale competente. Chi non potrà dimostrare di essersi attenuto a questi obblighi sarà
passibile di multe e di altri provvedimenti amministrativi. Gli Stati membri dovranno prevedere sanzioni
penali in quattro casi gravi: violazioni ripetute, impiego di un numero elevato di immigrati irregolari,
sfruttamento e consapevolezza che il lavoratore è vittima della tratta di esseri umani.
Gli immigrati illegali, in effetti, sono spesso attratti verso l'Unione europea dalla possibilità di
trovare un impiego e dalla prospettiva di una vita migliore, ma alla fine si scontrano spesso con la dura
realtà dello sfruttamento e con condizioni di lavoro di quasi schiavitù (assenza totale di protezione nei
cantieri edili o per l’uso di pesticidi pericolosi; giornate di lavoro di 12 fino a 16 ore, a volte per appena
30 euro).
La tratta degli esseri umani e le vittime dell’immigrazione clandestina
Esiste un’indubbia connessione tra il fenomeno dell’immigrazione legale, quella clandestina e la
tratta degli esseri umani.
Secondo dati del Parlamento europeo, delle 600.000 - 800.000 persone vittime ogni anno della
tratta internazionale di esseri umani, questa forma moderna di schiavitù, circa l'80% sono donne e
ragazze e circa il 50% sono minori. Nella sola Unione europea sono vittime 100.000 donne ogni anno.
La maggioranza delle vittime di questo traffico internazionale è destinata allo sfruttamento sessuale a
fini commerciali.
Altro fenomeno connesso a quello dell’immigrazione legale, è quello che deriva dalle vittime
dell’immigrazione clandestina. L’Osservatorio Fortress Europe, diretto da Gabriele Del Grande, ha
censito, in base ad informazioni provenienti dai media, che dal 1988 sono rimaste vittime
dell’immigrazione clandestina che aveva come distinazione i paesi europei, almeno 5.856 persone,
1.949 delle quali disperse in mare.
Un miliardo e 820 milioni di euro: questa la cifra spalmata sui prossimi sette anni per il controllo
delle frontiere esterne dell’Unione europea.
Si tratta di quasi la metà delle risorse destinate al capitolo immigrazione nel bilancio approvato
dal Parlamento europeo. Nella partita rientra anche Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle
frontiere, il cui bilancio per il 2007 è stato raddoppiato a 340 milioni di euro, con l’obiettivo dichiarato
di creare un sistema permanente di pattugliamento della costa sud dell’Europa.
Le rimesse degli immigrati per i paesi in via di sviluppo
Secondo un rapporto della Banca Mondiale del 2005, l’ammontare del denaro che ogni mese i
lavoratori immigrati spediscono ai loro familiari nel mondo in via di sviluppo, è pari a 126 miliardi di
dollari (circa 97 miliardi di euro) nel 2004 e tende a crescere nell'ordine del 10 per cento ogni anno.
Rappresenta il doppio del totale di tutti gli aiuti pubblici dei paesi industrializzati verso l'Africa, l'Asia e
l'America Latina e coinvolge in tutto il mondo più di mezzo miliardo di famiglie.
I dati sono stimati per difetto, perché sia la Banca Mondiale che il Fondo monetario tengono conto
soprattutto dei trasferimenti fatti per le vie tradizionali, attraverso le banche o le agenzie money transfer,
mentre una parte dei soldi, viaggia da un continente all'altro, in molte altre forme, tanto che, fonti meno
ufficiali sostengono che il totale delle rimesse sia almeno il doppio di quello rilevato dalla Banca
Mondiale e dalle agenzie dell'Onu.
Si tratta, a ben vedere, di un affare internazionale, se si pensa che solo una money transfer
come la Western Union ha 170mila agenzie per il trasferimento di denaro in 190 paesi del mondo, e di
una fonte insostituibile di reddito per i paesi che le ricevono. In Nicaragua e in Salvador, ad esempio, le
rimesse rappresentano ormai più del 20 percento del Pil e ci sono intere città che, nei due paesi, esistono
solo grazie ai soldi che inviano i familiari dall'estero.
La lista dei paesi dai quali escono i dollari delle rimesse vede naturalmente in testa gli Stati Uniti
che hanno ormai superato la cifra record di 30 miliardi di dollari all'anno, la metà dei quali finisce in
Messico. Al secondo posto c'è l'Arabia Saudita, dalla quale diretti nelle Filippine o in Bangladesh,
escono più di 15 miliardi di dollari all'anno. Tra gli europei, al primo posto c'è la Germania (8,1
miliardi), con Belgio, Lussemburgo, Svizzera e Francia (3,9 miliardi).
Le cause dei processi migratori: invecchiamento della popolazione e povertà
Le previsioni indicano che nel 2050 la popolazione mondiale potrebbe raggiungere un livello
variabile, in relazione al tasso di crescita preso a riferimento, tra i 7,4 e i 10,6 di miliardi di persone.
Per quella data, gli abitanti del pianeta saranno aumentati del 50% rispetto ad oggi, con un
incremento maggiore (80,3%) per i cosiddetti paesi in via di sviluppo (PVS). La metà dell’aumento
mondiale della popolazione, che si verificherà nel periodo 2000/2050, stimata in 2,9 miliardi, si
concentrerà in quattro paesi asiatici (India, Pakistan, Bangladesh e Cina) e in tre paesi africani (Nigeria,
Etiopia, Repubblica Democratica del Congo).
Nei paesi a sviluppo avanzato, la riduzione del tasso di fertilità e l’aumento dell’aspettativa di
vita produrranno - per effetto dell’incidenza degli over sessanta e dell’età media – sia l’invecchiamento
sia una riduzione della popolazione.
Parte dei sette paesi maggiormente sottosviluppati (PMS) avranno nel 2050 una popolazione
giovanissima, con una età media di 23 anni (Angola, Burkina Faso, Mali, Niger, Somalia, Uganda,
Yemen), mentre diciassette paesi a sviluppo avanzato (PSA) avranno una popolazione con una età
media superiore ai 50 anni. Tra questi, l’Italia, con 52 anni, superata solo da Giappone, Lettonia, e
Slovenia con 53 anni.
L’invecchiamento della popolazione - senza precedenti nella storia dell’umanità - porrà problemi
nuovi, rispetto ai quali non esistono ancora una cultura e un vissuto consolidato su cui fare affidamento.
Basti pensare che i demografi calcolano che nel 2050 il peso percentuale degli anziani sulla popolazione
mondiale sarà del 20,1%, mentre quello dei giovani sarà del 21,4%. Nei prossimi 25 anni,
l’invecchiamento determinerà in Europa una crescita della popolazione anziana ad un ritmo più elevato
degli altri gruppi di età.
Molti osservatori sottolineano che l’immigrazione rappresenterà la componente principale dei
cambiamenti demografici in buona parte del mondo industrializzato. Questo perché, da un lato, la
popolazione in età lavorativa dovrebbe scendere dagli attuali 303 milioni a 297 milioni entro il 2020 e
successivamente a 280 milioni entro il 2030 e, dall’altro, il tasso di dipendenza della popolazione
anziana dovrebbe quasi raddoppiare. Le conseguenze su tassi di occupazione (oggi già non ottimali) e su
crescita economica sono facilmente immaginabili.
Altra componente fondamentale che attiva il processo migratorio è rappresentata dalla povertà: Il
18% della popolazione (Europa ed America settentrionale) detiene la metà della ricchezza mondiale
mentre il 60% (Asia) detiene solo il 35%; In Cina il PIL pro capite è di 4.428 dollari e in India è di
2.589. Sopravvivono con una media di 6 dollari al giorno 2,4 miliardi di persone dei paesi dell’Asia
Centro Meridionale e dell’Africa.
La distribuzione continentale del PIL in relazione alla popolazione è vantaggiosa per l’Oceania,
l’Europa Centro Orientale e soprattutto per alcuni paesi europei quali Svizzera e Norvegia ed è
svantaggiosa per l’America Centro Meridionale, l’Asia Occidentale e l’intera Africa, continente più
povero del pianeta. Appare, inoltre, particolarmente sproporzionata la situazione dell’Asia Centro
Meridionale dove il 24% della popolazione mondiale ha a disposizione solo il 3,4% del PIL ed ha un
reddito pro capite pari a 924 dollari.
Questi dati avvalorano la denuncia di James Wolfensohn, già Presidente della Banca Mondiale,
in merito ai sussidi all’agricoltura dell’UE per effetto dei quali "un allevatore ha a disposizione per ogni
mucca europea 5 dollari al giorno mentre la metà della popolazione mondiale sopravvive con meno di
due dollari al giorno".
Sempre citando i dati della Banca Mondiale, i sussidi alla agricoltura programmati negli USA e
nell’UE hanno raggiunto i 350 miliardi di dollari contro i 50 destinati per incentivare lo sviluppo
economico dei popoli più poveri.
Sopraproduzione agroalimentare, sperpero di risorse pubbliche, ingerenze di forze malavitose
nella gestione delle risorse pubbliche, guasti ambientali ed ecologici derivanti dall’uso smodato della
chimica e dello sfruttamento intensivo dei terreni e delle risorse non rinnovabili (quale l’acqua),
concorrenza sleale con la debole produzione agricole dei PVS, sono aspetti di questo modello di
sviluppo che concorre a determinare ipernutrizione nei paesi del Nord e fame nel Sud del mondo.
Razzismo, xenofobia e immigrazione
Secondo l’ultimo rapporto del Centro europeo di monitoraggio su razzismo e xenofobia, in
Europa solo la Gran Bretagna e la Finlandia hanno sistemi "comprensivi" in grado di riferire episodi di
violenza razzista, raccogliendo dettagli sulle vittime e sui luoghi in cui si sono verificati gli incidenti,
mentre Italia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta non dispongono di alcun dato ufficiale sulla violenza
razzista. "Il risultato è che le minoranze etniche possono subire discriminazioni senza che ci sia una
risposta adeguata da parte dello Stato", dice Beate Winckler, direttrice del Centro. In Gran Bretagna si
sono verificati 60.000 episodi di razzismo tra l'aprile 2004 e il marzo 2005. Le autorità tedesche hanno
registrato 15,914 crimini legati alla xenofobia nel 2005, mentre la Francia ha denunciato 974 incidenti
dovuti a pregiudizi razziali. Il rapporto evidenzia come la Danimarca abbia assistito all'aumento più
spiccato del fenomeno, passando da 36 episodi nel 2004 a 81 nel 2005, con una crescita del 69%.
I bersagli della discriminazione, della segregazione e degli attacchi razzisti sono soprattutto gli 8
milioni di rom e di gitani presenti in Europa. I rom sono «specialmente vulnerabili» alle politiche di
segregazione, in particolare per quanto riguarda l'istruzione. L'osservatorio evidenzia come nella
Repubblica Ceca, in Slovacchia e in Ungheria sia consentita l'esclusione dei bambini rom dal sistema
scolastico normale. In aumento anche gli attacchi fisici e verbali nei confronti dei musulmani, secondo
quanto riferiscono rapporti non governativi, mentre continuano a verificarsi anche episodi di
antisemitismo.
In aumento anche i problemi legati al mondo del lavoro, dove il tasso di disoccupazione delle
minoranze etniche è "significativamente più alto" in Belgio, Danimarca, Germania, Estonia, Lituania e
Finlandia. Il rapporto evidenzia le difficili condizioni abitative di alcuni gruppi etnici e degli immigrati.
«Anche se è illegale in tutti gli Stati membri dell'Unione europea, gli annunci per le case formulati in
modo tale da rifiutare esplicitamente gli stranieri possono ancora essere trovati in alcuni Stati membri»,
come Italia, Francia, Spagna, si legge. Talvolta in Belgio i proprietari di appartamenti rifiutano di
affittare a persone con cognomi stranieri, così come in Italia, Danimarca, Francia e Finlandia.
Il rapporto, infine, cita i due principali episodi del 2005 che hanno messo in evidenza l'esclusione
e la discriminazione che si respirano in Europa. Il primo riguarda le sommosse nelle 'banlieues' parigine
di ottobre e novembre 2005 da parte di giovani arabi e musulmani, dovute ai decenni di esclusione sul
lavoro e nelle città e dalla complessiva alienazione dalla società civile. Secondo l'Osservatorio europeo,
si tratta di episodi che mostrano l'urgente bisogno di far fronte alla discriminazione. Il secondo caso è
quello degli attentati alla metropolitana di Londra del luglio 2005. Il rapporto elogia "la posizione
forte" assunta dalle autorità politiche e religiose britanniche, che hanno condannato gli attacchi e hanno
evitato il diffondersi di "crimini di odio religioso".
Che cosa significa integrazione
Nella ricerca a cura di Olga Rymkevitch e Silvia Spattini per il Centro Studi Internazionali e
comparati dell’Università di Bologna, intitolata "L’integrazione degli Immigrati: verso un quadro
comune a livello di unione europea", si sostiene che il contributo potenziale che gli immigrati possono
apportare all’Europa non è ancora pienamente sviluppato.
Il tasso di occupazione dei cittadini di paesi terzi, ovvero il 52,7%, è significamene più basso di
quello dei cittadini dell’Unione Europea, attestato al 64,4% .
I migranti sono maggiormente presenti nei settori occupazionali più rischiosi, nel lavoro
sommerso di bassa qualità e nei segmenti di popolazione particolarmente esposti a rischi sanitari e
all’esclusione sociale. Infatti, il tasso di disoccupati altamente specializzati tra gli immigrati è più basso
rispetto a quello dei cittadini dell’Unione europea, mentre i disoccupati tra i cittadini dell’Unione
Europea con scarse qualifiche professionali a volte superano il numero di immigrati disoccupati.
Questo si spiega in virtù del fatto che i migranti istruiti e qualificati non hanno spesso la capacità
di trovare un’occupazione che corrisponda alle loro specifiche qualifiche, hanno difficoltà nel processo
di riconoscimento dei loro diplomi o equipollenze di altri titoli, e devono, di conseguenza, accettare
lavori che non presuppongono qualifiche professionali e scarsamente retribuiti. Mentre, per quanto
riguarda gli occupati con scarsa preparazione, professionale, a volte hanno più possibilità di trovare un
impiego perché i lavoratori nazionali rifiutano di esercitare alcune tipologie di impiego.
In generale, il tasso di disoccupazione dei migranti è quasi raddoppiato rispetto ai cittadini
dell’Unione Europea. Il divario più grande a sfavore degli immigrati dei paesi terzi si è verificato in
Belgio, Francia, Finlandia e Svezia. Questi soggetti risultano essere particolarmente vulnerabili verso i
ribassi ciclici in quanto molti sono occupati con contratti a termine (il 20% contro il 13 % dei cittadini
della Unione Europea). In molti paesi gli immigrati percepiscono retribuzioni inferiori.
Il concetto di cittadinanza è di centrale importanza per la successiva fase integrativa, in quanto
potrebbe stimolare il senso di appartenenza alla vita civile e, inoltre, conferisce la piena fruizione dei
diritti civili, anche se la Commissione giustamente riconosce "che l’acquisizione della nazionalità è un
mezzo per agevolare l’integrazione, seppure questa non debba diventare il fine ultimo del processo di
integrazione e non sia in grado di risolvere di per sé le questioni legate all’esclusione sociale e alla
discriminazione".
La concessione della cittadinanza è riservata oggi alle pratiche nazionali, che variano da paese a
paese (per il riconoscimento dei titoli di studio, il tutto è affidato agli accordi bilaterali), anche se
generalmente si basano sulla durata del soggiorno nel territorio del paese ospitante.
Per assicurare l’effettiva integrazione degli immigrati e il principio di non discriminazione, nel
caso in cui un immigrato non ha ancora acquisito la cittadinanza, la Commissione ha introdotto il
concetto di cittadinanza civile, che rappresenta "un nucleo comune di diritti e doveri fondamentali che il
migrante acquisisce gradualmente nel corso di un certo numero di anni, in modo da garantire che
questi goda dello stesso trattamento concesso ai cittadini del paese ospitante, anche quando non sia
naturalizzato."
Il concetto di cittadinanza civile presenta un ulteriore elemento rilevante, vale a dire la
possibilità di agevolare la partecipazione alla vita politica, la quale rappresenta un elemento critico per
alcuni paesi. Nonostante le resistenze di alcuni stati membri, alcuni paesi già concedono il diritto di
voto.
Si può distinguere tra due principali modelli dei programmi nazionali di integrazione.
La prima è volta ad accogliere gli immigrati arrivati in seguito al ricongiungimento familiare o
per motivi umanitari. Essa, dunque, non è legata alla necessità di offrire possibilità d’impiego o non
implica la conoscenza linguistica del paese ospitante. È evidente che questo modello è diffuso nei paesi
con un sistema di previdenza sociale altamente sviluppato.
Il secondo modello è, invece, mirato ad assicurare servizi primari, come le strutture alloggiative
e l’accesso ai servizi sanitari per gli immigrati per motivi di lavoro.
L’obiettivo di entrambi è quello di rendere gli immigrati economicamente autonomi nonché di
promuovere la loro partecipazione al mondo del lavoro, sociale e culturale.
In particolare molti paesi attuano politiche di integrazione linguistica, attraverso corsi di lingua e
di cultura del paese ospitante, in quanto si ritiene che la scarsa conoscenza della lingua costituisca uno
dei fattori inibenti l’integrazione nel mercato del lavoro, ma anche nella società civile, con il connesso
rischio di una completa esclusione sociale.
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