11 settembre 1973, colpo di stato militare in Cile Il sogno infranto di Salvador Allende

Fu uno giorni più neri della storia della sinistra nel Ventesimo secolo: trent’anni fa, l’11 settembre 1973, il golpe della giunta presieduta dal generale Augusto Pinochet metteva fine, in un bagno di sangue, a tre anni di un’esperienza senza precedenti. Per la borghesia cilena, come per i dirigenti degli Stati uniti, era necessario infrangere il sogno di Salvador Allende e dell’Unità popolare – una transizione pacifica verso un socialismo democratico – prima che fosse troppo tardi. A ogni costo. Tomas Moulián L’analisi di tutta la vita politica di Salvador Allende e in particolare delle sue posizioni nel corso dell’agitato periodo di Unità popolare, permette di interpretare in modo adeguato il suo gesto finale. Il suo suicidio, l’11 settembre 1973, nel palazzo presidenziale della Moneda, non fu un atto disperato né un gesto romantico per ottenere un ingresso eroico nella storia. Quel gesto prolunga la vita di un realista, di un grande politico.
All’interno di una sinistra cilena che si ispirava da lungo tempo al marxismo e a un Partito socialista che, negli anni Sessanta, aveva tendenza ad assumere posizioni «massimaliste», Salvador Allende ha rappresentato un tipo particolare di rivoluzionario. Aveva riposto le sue speranze nelle urne e credeva nella possibilità di instaurare il socialismo all’interno del sistema politico.
Allende non ha nulla del tribuno rivoluzionario gonfio di retorica.
È un uomo politico che si è formato attraverso le lotte quotidiane.
All’interno di un sistema democratico rappresentativo, nel quale possono essere realizzate alleanze politiche in favore della sinistra, ha cercato di conquistare degli spazi per una politica popolare.
Ma non ha mai abbandonato la critica del capitalismo e il desiderio di socialismo. È la grande differenza tra la sua posizione e quella dell’attuale Partito socialista cileno, membro della Concertazione democratica al potere dalla fine della dittatura. Per Allende essere realista non significava negare il futuro limitandosi a una politica «pragmatica».
La sua visione politica si forma nel periodo delle coalizioni di centrosinistra (1938-1947), in particolare nel governo di Pedro Aguirre Cerda di cui è ministro della Sanità. Scopre allora quello che diventerà l’elemento centrale della sua strategia: la ricerca di unità fra i due grandi partiti popolari, il Partito socialista e il Partito comunista. Le rivalità fra queste due forze avevano fino a quel momento indebolito la coalizione di governo e limitato le riforme favorendo le possibilità di manovra dell’alleato centrista, il Partito radicale, diventato ormai l’ago della bilancia della maggioranza. Questi governi sono gli esecutori materiali di un programma democratico borghese, cioè di una modernizzazione capitalistica accompagnata da una legislazione sociale e da un ruolo di mediatore dello stato, che Allende, al contrario di altri dirigenti socialisti, non ha mai rimesso in discussione.
Per realizzare questa politica di unità fra socialisti e comunisti, Allende si vede obbligato nel 1952 a un gesto paradossale: dividere il suo stesso partito. La sua ossessione è la ricerca di una strada latino-americana verso la rivoluzione, ispirata soprattutto dall’idea della «terza via» di Victor Raúl Haya de la Torre e degli «apristi» (1), ma la cui esperienza concreta è rappresentata in quel momento da Juan Domingo Perón e dal «giustizialismo» argentino. Tuttavia Allende si oppone a questa deriva verso il populismo. Si ritira dal Partito socialista per organizzare il Fronte della patria con i comunisti, ancora in clandestinità. Da qui nasce la sua prima candidatura alla presidenza nel 1952.
Questo gesto ne fa il leader dell’unità con i comunisti e il portavoce del primo embrione, ancora vago nella sua formulazione teorica, della politica di conquista elettorale del governo da parte di una coalizione rivoluzionaria. Questa strategia si mette in moto prima del 20° congresso del Partito comunista dell’Unione sovietica (Pcus), ma di fatto si tratta di una prosecuzione delle tesi dei fronti di liberazione nazionale sostenute dai partiti comunisti nella quasi totalità dell’America latina.
Un socialismo libertario e progressista Portando Allende a un passo dalla vittoria, i risultati delle elezioni del 1958 ne fanno il leader degli anni Sessanta, un’epoca nella quale la linea di transizione istituzionale verso il socialismo, chiamata anche via pacifica o non militare, si contrappone alla tesi della presa del potere con la lotta armata, per «la distruzione dello stato borghese», che aveva fatto vedere i suoi risultati a Cuba.
Più vicino ai comunisti che al suo stesso partito, Salvador Allende non si lascia trascinare nella svolta a sinistra intrapresa dai socialisti cileni dopo la sconfitta della campagna presidenziale del 1964. A partire da questo momento, infatti, molti socialisti si affrettano a decretare la fine dell’opzione elettorale e annunciano la necessità di un cambiamento di strategia, senza però preoccuparsi di studiare le particolarità del caso cileno, con la sua complessa struttura di classi, il suo sistema di partiti e la sua lunga e costante tradizione democratica.
Allende si tiene ai margini di questa disputa. Senza mai smettere di giudicare positivamente e sostenere Cuba, continua a credere, ormai quasi da solo tra i socialisti, nella possibilità di vincere le elezioni presidenziali e, una volta ottenuto questo successo, promuovere una transizione istituzionale verso il socialismo. Questo atteggiamento gli attira numerose critiche.
La mentalità trionfalistica degli anni ’60, un periodo di ottimismo dovuto all’attualità della rivoluzione, impedisce ai partiti e agli intellettuali di porsi le domande essenziali per la costruzione del socialismo in Cile attraverso la via istituzionale. È possibile realizzare il socialismo in un paese in cui la sinistra è molto distante dai settori progressisti del Partito democratico cristiano, dinamizzati dalla leadership di Radomiro Tomic? Come ottenere l’indispensabile maggioranza istituzionale e popolare senza la costruzione preliminare di un blocco favorevole al cambiamento, di un largo fronte progressista?
Durante questo intenso periodo di Unità popolare (una fase felice per la costruzione del futuro, che ma che aveva già in sé il germe della tragedia), Allende va più lontano di chiunque altro nella definizione dell’orizzonte strategico. Nel suo discorso del 21 maggio 1971, si astrae dalla fase contingente e definisce il socialismo cileno libertario, democratico e pluripartitico. Una concezione che fa di Allende il precursore delle tesi dell’eurocomunismo. Va più lontano degli stessi comunisti cileni, che non abbandonano la concezione ortodossa del socialismo e sono chiusi nella logica della fase decisiva in cui si dovrà prendere «tutto il potere». Anche se rinviano questa fase a un momento futuro, i comunisti la considerano indispensabile. La famosa metafora del loro dirigente, Luis Corvalán, sulla «destinazione finale del treno del socialismo» lo dice chiaramente: questo treno arriverà fino a Puerto Montt, all’estremo sud del Cile, ma alcuni alleati temporanei scenderanno prima.
Allende sa bene che non ci potrà essere transizione istituzionale senza la creazione di un’alleanza strategica con tutti i settori progressisti per ottenere una solida maggioranza. Ma la sua lucidità è inutile, non riesce a imporre questa politica nel momento opportuno.
Arrivato al potere, non pensa mai di abbandonare la sua etica umanista né di ricorrere all’autoritarismo del potere, come avevano fatto quasi tutti i presidenti a partire dal 1932. Questo atteggiamento ha probabilmente impedito alla sua «rivoluzione» di far paura ai nemici. Tuttavia il grado di sviluppo della crisi all’inizio del 1973 l’avrebbe obbligato a perseguire legalmente non solo alcuni settori dell’opposizione, ma anche i gruppi di sinistra che si opponevano alla sua politica, costrigendolo in una situazione senza vie di uscita.
Ma fu sempre un democratico, anche nei periodi di grave pericolo per il governo, di evidenti interventi stranieri e di attività terroristiche da parte dell’estrema destra.
Probabilmente avrebbe dovuto, senza arrivare all’autoritarismo, assumere il ruolo di un presidente forte, prendendo le distanze dai partiti e imponendo le sue decisioni nei momenti cruciali. Sono state le esitazioni delle formazioni politiche, la loro lentezza nel prendere le decisioni che hanno precipitato la situazione e hanno facilitato il compito dei suoi nemici, in un’Unità popolare drammaticamente divisa tra chi era disposto a negoziare e chi proponeva di «andare avanti senza transigere».
Allende non ha cercato di creare un nuovo riformismo né una strada socialdemocratica. Ha voluto fare della democratizzazione radicale in tutti i settori della vita sociale l’asse principale della trasformazione sociale. Era questo l’aspetto rivoluzionario, e non l’uso della violenza per risolvere il problema del potere. Purtroppo per il futuro degli ideali socialisti, questo tentativo è fallito.
Il presidente cileno non entra nella storia per la sua morte, ma grazie alla sua vita, e la sua morte non fa che rafforzarne il mito.
Grazie al suo istinto politico e al suo realismo storico, ha rappresentato l’espressione simbolica di una «nuova maniera» di arrivare al socialismo, in un momento in cui i sintomi di crisi del socialismo reale cominciavano già a farsi sentire.
Le mosche del generale Il giorno del colpo di stato Salvador Allende si suicida. Perché aver nascosto questa realtà per tanti anni? Il suo suicidio è stato un atto di lotta. Durante quella terribile mattina dell’11 settembre il presidente passa dal dolore alla lucidità. È il tradimento che lo opprime. Molti testimoni parlano della sua preoccupazione per «Augusto». In uno dei discorsi di quella mattina, ordina ai militari fedeli di difendere il governo. A quale generale pensare se non a Pinochet, al quale aveva dato le «stelle» di comandante in capo dell’esercito?
Come immaginare questo dolore? Giulio Cesare dice a Bruto: «Anche tu, figlio mio?». Un’esclamazione di stupore di fronte alla bassezza nella quale è caduto l’amico. Il dolore lancinante di fronte al sentimento di frustrazione. Nel corso di quella mattina Allende ci deve avere certamente pensato in più di un’occasione.
Ma a un certo momento deve aver raggiunto il controllo ascetico di se stesso, padroneggiato il dolore per metterlo al servizio della politica. Infatti non ha mai pensato di uscire vivo dal palazzo della Moneda. Probabilmente presagiva che sarebbe morto combattendo. Pensava alla resistenza, ai militari capaci di onorare il loro giuramento e ai partiti capaci di trasformare le loro parole in atti e quindi in grado di opporsi concretamente. Non si immaginava solo, abbandonato, circondato solo dai suoi fedeli, mentre Unità popolare decretava il cessate il fuoco.
Di fronte a questa nuova prospettiva, di fronte alla possibilità di sopravvivere ai bombardamenti e alla sconfitta senza resistenza, Allende cerca di ottenere il migliore risultato politico. Scarta l’ipotesi dell’esilio e prepara la risposta più adeguata, quella che rappresenta la migliore espressione dei suoi ideali e che può provocare le conseguenze più negative per chi ha trascinato il Cile nella tragedia. È il suicidio. Questo atto, che macchia il generale Pinochet con il suo sangue, rimarrà per sempre una traccia indelebile.
Nel momento stesso in cui trionfa, il generale ha il destino segnato, come un soldato senza onore che fugge le proprie responsabilità, che sopravvive solo grazie alle sue furberie legali. Certo, Pinochet ha vinto, poiché ha modellato la società cilena attuale. Ma non potrà mai diventare un eroe, perché il ruolo di eroe spetta ad Agamennone e non a Egisto (2).
Perché allora il generale Pinochet ha agito in questa maniera? Per l’avidità di un potere che non proveniva dal «padre», da colui che lo aveva scelto come capo. Questo impulso incosciente e incontrollabile lo ha portato a un errore: temere Allende più da vivo che da morto.
Questo parricidio simbolico è il marchio che Allende gli imporrà come destino. Non lo ha neanche potuto uccidere, perché Allende ha scelto personalmente la sua morte.
Come nel dramma di Sartre, Pinochet è circondato da mosche. Per questo motivo oggi i suoi discepoli e i suoi collaboratori di un tempo lo rinnegano. I militari ripudiano apertamente le sue violazioni dei diritti umani. Devono farlo per conservare la legittimità del modello.
Vogliono che si dimentichi quello che è stato il prodotto della forza machiavellica del potere senza limiti, di un terrore di cui il generale Pinochet è stato responsabile insieme a loro.
Salvador Allende ha perduto la prima battaglia per un nuovo socialismo.
Ma è un modello che non ha perso la sua forza. Rimane il simbolo di una lotta da riprendere per il socialismo di domani.note:
* Sociologo, Università delle arti e delle scienze sociali (Arcis), Santiago. Autore di En la brecha. Derechos humanos, criticas y alternativas, Editorial Lom, Santiago, 2002.
(1) Fondatore, nel 1924, dell’Alleanza popolare rivoluzionaria americana (Apra), Victor Raúl Haya de la Torre mobilita le masse degli indios e gli intellettuali peruviani con un programma nazionalista e (almeno nei primi tempi) vicino al marxismo.
(2) Agamennone sovrano di Argo, fu assassinato da Egisto mentre si trovava senza armatura e senza armi.
(Traduzione di A. D. R.)

Tratto da Le monde Diplomatique, edizione italiana
http://www.monde-diplomatique.it/ricerca/ric_view_lemonde.php3?page=/LeMonde-archivio/Settembre-2003/0309lm20.01.html&word=allende

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