Quanto costa l’universita’ italiana?

    Puo’ ben essere che il sistema universitario italiano sia eccessivamente finanziato. Ma i dati dell’OECD, che il prof. Luca Tedesco cita per sostenere questa tesi (Il Riformista 30 ottobre, v. nota), certamente non contribuiscono a raggiungere questa conclusione.
    Come cerchero’ di dimostrare non appare avere alcun fondamento l’affermazione di Tedesco secondo la quale la spesa annua per studente in Italia e’ la piu’ alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia. Partiamo, come fa Tedesco, dalla tavola B1.1a del documento Education at a Glance 2008, che indica in 8.026 dollari la spesa annua per studente italiano, ben al di sotto di quella media dei paesi OECD, che e’ di 11.521 dollari. Ma attenzione! Come indicato nella nota tecnica del documento, ci sono tre paesi Austria, Germania e Italia che non distinguono tra studenti a tempo pieno e studenti a tempo parziale. Per questi paesi la spesa annua risulta sottostimata. Per ovviare a questo inconveniente l’OECD ha predisposto un altro calcolo, i cui risultati sono indicati nella tavola B1.3b e nel grafico B1.5. Si calcola cioe’ la spesa cumulativa per la durata (effettiva, non nominale) degli studi. Come spiega la nota tecnica,  in questo calcolo la mancata indicazione degli studenti a tempo parziale risulta ininfluente perche’ "l’effetto si compensa dal momento che contare gli studenti a tempo parziale come studenti a tempo pieno conduce ad una sottostima delle spese annuali e ad una sovrastima della durata degli studi".
     L’Italia con una spesa cumulativa di 41.285 dollari per studente si colloca ancora sotto la media OECD che e’ di 47.159 dollari, anche se diminuisce, in percentuale, lo scarto dalla media. I  paesi la cui spesa cumulativa supera quella dell’Italia sono 12, hanno invece una spesa inferiore, 9 paesi. E’ da notare che non tutti i paesi hanno comunicato i dati sull’effettiva durata degli studi, e quindi sui ritardi negli studi.
Mancano nella tavola B1.3b , i dati degli SU, del Canada, e di altri 8 paesi. Questo significa, credibilmente, che i dati sugli studenti a tempo parziale, non coincidono con i dati sugli studenti ritardatari. Fin qui quello che si puo’ desumere dal documento dello OECD.
    Vediamo ora invece come puo’ il prof. Tedesco raggiungere conclusioni cosi’ contrastanti. Prima di tutto egli parte dall’ipotesi che i dati di tutti i paesi, ad esclusione dell’Italia, si riferiscano alla spesa per studente equivalente a tempo pieno, ottenuta calcolando il numero degli studenti pesati per i corsi effettivamente seguiti e gli esami effettivamente sostenuti. Se l’ipotesi fosse vera sarebbe lecito moltiplicare all’incirca per due le spese per studente universitario italiano, lasciando invariate le altre cifre, come fa il prof. Tedesco, ed infatti dopo la moltiplicazione per due, la spesa per studente universitario italiano della tavola B1.1a risulta inferiore solo a quella di SU, Svezia e Svizzera. Ma l’ipotesi cui aderisce il professore  e’
palesemente falsa almeno per l’Austria e la Germania, che si trovano nella stessa condizione dell’Italia. Ne’ questa ipotesi viene in alcun modo avvalorata per gli altri paesi dal documento dell’OCSE. Infatti essa appare estremamente improbabile almeno per i paesi che non hanno fornito informazioni sui tempi effettivi di conseguimento delle lauree, al punto da essere esclusi dalla tavola B1.3b. Infine, se fosse vera, i risultati forniti dalla Tavola B1.3b, che tengono conto dei ritardi, dovrebbero coincidere con quelli della Tavola B.1.1a. E’ lecito a questo punto pensare che i paesi diversi da Austria, Germania e Italia abbiano classificato come studenti a tempo parziale solo gli studenti che si erano dichiarati tali al momento dell’iscrizione e non tutti i ritardatari. Insomma i dati forniti dalla tavola B1.3b appaiono piu’ credibili di quelli basati sulla ipotesi Tedesco.
Questo significa che dobbiamo credere ciecamente ai dati forniti dall’OECD nella Tavola B1.3b? Credo proprio di no. I tecnici dell’OECD compiono sforzi eroici per paragonare tra loro sistemi profondamente diversi e raccolte di dati disomogenee, ma non riescono a tener conto di tutto. Ad esempio il dato, cosi’ alto, della spesa per studente universitario degli SU, puo’ essere in parte spiegato dal fatto che le universita’ considerano come spese il rimborso delle tasse universitarie, erogato ad una percentuale anche alta degli studenti. Questo gonfia sia le entrate che le spese con cifre equivalenti a partite di giro. Per fare un altro caso, in Italia si considerano come spese per l’istruzione universitaria gli stipendi degli infermieri e degli ausiliari dei policlinici a gestione diretta. Infine in Italia, ma forse non in tutti gli altri paesi, gran parte delle spese per le ricerche dei docenti universitari non passano per i bilanci universitari e quindi non figurano come spese per l’istruzione universitaria.
    Cosi’ ad esempio la costosissima partecipazione dei docenti di fisica italiani al grande esperimento in corso al CERN di Ginevra, grava sui bilanci dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e sul finanziamento degli accordi internazionali di cooperazione scientifica. Insomma e’
proprio vero che le cifre dell’OECD vanno interpretate con molta cautela.
Ma il prof. Tedesco, che e’ un valentissimo storico, dovrebbe esaminare i dati utilizzati nelle polemiche sull’universita’ condotte da professori con la stessa cura e la stessa diffidenza con la quale esamina, ai fini di una corretta ricostruzione storica, gli scritti e i discorsi di politici in polemica tra loro.

Alessandro Figa’ Talamanca

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