Resolution 819

3° Festival Film di Roma

I musulmani di Srebrenica erano protetti dal ’93 da una risoluzione dell’Onu -la 819- che ne doveva garantire l’incolumità a seguito del conflitto balcanico. Questa risoluzione venne disattesa nel luglio ’95, quando i caschi blu non difesero la popolazione da Mladic. Il film di Battiato non ha ancora una casa di distribuzione e potrebbe non circolare nelle sale.
Regia: Giacomo Battiato
Direttore della fotografia: Igor Luther
Montaggio: Diane Logan
Interpreti principali: Benoît Magimel, Hristo Shopov, Hippolyte Girardot, Karolina Gruszka, Todd Kramer, Ryan James, Emina Muftic, Dimitrije Ilic
Produzione: Breakout Films, Aperto Films, TVN
Origine: Fra, Pol, Ita, 2008
Durata: 95′
Questa fiction che ricostruisce un nuovo Olocausto, perpetrato nel cuore di una Europa distratta e complice, non ha ancora una casa di distribuzione, potrebbe dunque non circolare nelle sale secondo il libero sistema con cui c’è chi decide per noi cosa vedere, sul grande come sul piccolo schermo. La strage di ottomila uomini mussulmani dell’enclave di Srebrenica in Bosnia avvenne in quattro giorni del luglio 1995 sotto gli occhi delle truppe delle Nazioni Unite. Queste non mossero un dito nei confronti della banda paramilitare con cui Mladic per mesi soffocò la cittadina fino a cannoneggiarla. I soldati dell’Onu non rispondevano perché gli ordini delle potenze mondiali – Stati Uniti clintoniani in testa – costringevano a non disturbare il tavolo in preparazione a Dyton che avrebbe sancito la fine delle ostilità in terra bosniaca. A quel tavolo venne garantita l’impunità ai macellai di Srebrenica, il mercenario Mladic e il suo compare Karadzic, criminali di guerra ricercati durante tutto il conflitto jugoslavo che negli anni seguenti sono stati protetti proprio dai grandi d’Occidente.
La comunità mussulmana di Srebrenica era protetta sin dal 16 aprile 1993 da una risoluzione dell’Onu – la 819 – che ne doveva garantire l’incolumità proprio a seguito del conflitto scoppiato nei Balcani. Questa risoluzione venne totalmente disattesa visto che i caschi blu non difesero la popolazione e Mladic potè compiere azioni di pulizia etnica deportando separatamente donne e uomini e massacrando quest’ultimi, dai bambini di sette ai vecchi di oltre settanta anni. Seguì uno spargere di corpi in fosse comuni. L’eco del massacro ventilato dai media e dagli osservatori in terra balcanica giunse al Tribunale Internazionale dell’Aja che incaricò un tenace poliziotto francese Jean-René Ruez (nel film diventa Jacques Calvez) di ricostruirne i passaggi tragici. L’uomo, ispirato da umanità e alto senso di giustizia, si mise a lavorare con accanimento nei luoghi della strage contornato da un gruppo di volontari, medici e altro personale esperto in operazioni estreme quali la riesumazione dei corpi.
Avevano di fronte la disperazione di migliaia di madri, mogli, sorelle da mesi prive di notizie dei familiari, donne angosciate, bisognose di conforto e consolazione visto che le speranze di ritrovare vivi i prigionieri erano praticamente nulle. Lo staff aveva di fronte anche la presenza dei mercenari cetnici autori del massacro che li spiavano dai boschi, li intimidivano, cercando d’ostacolare l’operazione di giustizia. Il metodo e la costanza di Ruez-Calvez furono premiate dal reperimento di iniziali prove: proiettili e materiale organico trovato nei luoghi delle esecuzioni. Con esse convinse il Tribunale a dare mandato e finanziamenti per eseguire massicce opere di scavo alla ricerca dei corpi delle vittime che avrebbero rappresentato il principale atto d’accusa per l’assassinio di massa. Durante gli scavi, che durarono tre anni, il poliziotto scoprì come i resti umani, già sparpagliati in varie fosse comuni, fossero stati riesumati e spostati proprio per cercare di occultare il più possibile il massacro. Karadzic, che durante quel periodo fu anche intravisto ma non fermato nei posti di blocco dei caschi blu, ha avuto la possibilità di vivere fra Vienna, Belgrado (come Mladic del resto) e altre località balcaniche, fino all’arresto del luglio scorso.
Il film compie una cosciente ricostruzione dei fatti cedendo in qualche punto al mélo. Come nell’empatia-simpatia fra Calvez e la graziosa assistente polacca che gli racconta altri momenti d’orrore delle memorie di famiglia vissute fra nazisti e russi, e nella teatralità della disperazione di massa delle donne di Srebrenica che agitano le foto dei propri cari o compiono il pietoso rito del riconoscimento dei resti. Ma in fondo c’è da chiedersi cosa rimanga del massacro: i loro chador chini sulle bare e le loro amare lacrime.

Enrico Campofreda, 30 ottobre 2008, 12:52 Resolution 819 (http://www.aprileonline.info/notizia.php?id=9662)

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